Classifiche di fine 2023

Nel 2023 ho avuto davvero poco tempo per scrivere recensioni, ed è anche vero – forse – che poco di quel che ho visto o letto mi ha davvero impressionato al punto di scriverne.

Ricapitolare il meglio in cui mi sono comunque imbattuto l’anno passato nel primo giorno dell’anno nuovo è un modo non solo per fare ammenda, ma per esprimere un proposito: di essere un po’ più presente (a me stesso, soprattutto) anche qui.

Prima di iniziare, una precisazione: per quanto riguarda serie TV e film, la scelta è soltanto tra ciò che è uscito nel 2023; per i libri invece vale tutto quel che ho letto nel corso dell’anno, a prescindere dalla data di pubblicazione.

TRE LIBRI

Al terzo posto, ma solo perché si tratta di una rilettura (altrimenti sarebbe primo con largo vantaggio), Cherudek, di Valerio Evangelisti, 1997. Ho iniziato in primavera a rileggere i romanzi del Ciclo di Eymerich non più in ordine di pubblicazione, come nel primo giro, ma nell’ordine cronologico dell’ambientazione della trama principale. Per di più ho cercato di far coincidere Il mistero dell’inquisitore Eymerich, ambientato ad Alghero, mentre mi trovavo in Sardegna, e Picatrix. La scala per l’Inferno mentre ero a La Palma, dove si svolge la sottotrama distopica del romanzo.

Sono pochissimi in generale i romanzi che ho letto più di una volta nella mia vita, ma vale proprio la pena farlo nel caso di questo ciclo letterario unico nel suo genere (o meglio, nei suoi generi). Rileggendoli a distanza di una quindicina d’anni dalla prima volta, e soprattutto a poca distanza l’uno dall’altro, emerge in tutta la sua grandezza il talento dell’autore e la genialità assoluta dell’idea che sta alla base di questa invenzione: l’idea che sia possibile associare un significato narrativo a teorie scientifiche eccentriche e tendenzialmente scartate, e più ancora la capacità di inserire questo significato in una teoria coerente non solo in se stessa, ma anche con un forte ideale che travalica la narrazione ed è quello del Valerio militante. Per giunta creando un protagonista, l’inquisitore Nicholas Eymerich, straordinariamente affascinante, ma che rappresenta l’antitesi esplicita di quell’ideale.

Fra i primi romanzi del ciclo, l’opera più straordinaria è senz’altro Cherudek, per la complessità e l’originalità della struttura, per la ricchezza dei riferimenti stilistici (da Lovecraft al giallo medievale), per la bellezza di tutte le trame.

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Al secondo posto un saggio del biologo evoluzionista Stephen Jay Gould, La vita meravigliosa: i fossili di Burgess e la natura della storia, 1989.

Di Gould, padre della teoria evoluzionistica degli “equilibri punteggiati“, amo moltissimo le raccolte di saggi brevi che affrontano molteplici questioni relative alla teoria dell’evoluzione attraverso aneddoti, spiegazioni brillanti di singole apparenti bizzarrie della natura.

La vita meravigliosa invece è un unico lungo racconto di una delle più straordinarie scoperte della storia della paleontologia – i fossili del giacimento di Burgess, in Canada, rinvenuti all’inizio del Novecento e risalenti alla “esplosione del Cambriano” – e di come la loro reinterpretazione nell’arco di oltre mezzo secolo abbia portato a una nuova comprensione della storia evolutiva della vita, basata sulla contingenza e non su una qualche forma di determinismo “finalizzata” alla comparsa dell’uomo.

Gould è un maestro della divulgazione e in questo testo appassionante, strutturato come un’opera shakespeariana, traspare tutto il suo amore per la scienza a cui ha dedicato la sua vita, troppo breve. In un’epoca di ritorno dell’idealismo filosofico, riscoprire le basi materiali su cui è fondata la nostra stessa esistenza è un’esercizio indispensabile.

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Tributo alla terra di Joe Sacco, 2020, è l’ultimo libro che ho letto quest’anno (l’ho finito ieri) ed è anche quello che mi ha colpito di più: grazie a chi me l’ha regalato, almeno un annetto fa.

Si tratta del reportage a fumetti di come il colonialismo occidentale, l’assimilazione forzata e lo sviluppo dell’industria estrattiva nei Territori del Nord Ovest in Canada (area che in precedenza conoscevo soltanto come territorio del Risiko!) abbiano avuto effetti dirompenti e perlopiù catastrofici sulle popolazioni native di quei territori, distruggendo le loro culture.

Attraverso una lunga serie di interviste, inframezzate dalle considerazioni dell’autore, il libro inizia raccontando la vita di quelle popolazioni prima dell’arrivo del “progresso”, e prosegue spiegando in che cosa sia consistito, in concreto, quel progresso: lo sradicamento consapevole delle giovani generazioni attraverso l’istituzione di residential school perlopiù religiose, teatro di ogni sorta di abusi fisici e psicologici, lo spossessamento forzato delle popolazioni native del loro rapporto con la terra, attraverso accordi truffaldini e con un uso massiccio della politica di divide et impera.

Le conseguenze sono state drammatiche: tra i nativi dei Territori del Nord Ovest c’è il più alto tasso di alcolismo, di violenze e di suicidi di tutta la nazione. Quel che è chiarissimo, per l’autore, è che non si tratta di necessari effetti collaterali del “progresso”, ma dei frutti marci dell’imperialismo occidentale: è in nome del profitto che un intero popolo è stato privato del proprio futuro, del proprio presente e perfino del legame con il proprio passato.

Senza contare la bellezza dei disegni e lo stile coinvolgente del racconto, il libro di Sacco mi ha colpito perché ha toccato delle corde che erano già sensibili dopo la mia fugace e superficiale esperienza nella regione centrale dell’Australia, dove una sorte molto simile è toccata agli aborigeni. Anche qui, la chiave della distruzione delle popolazioni native, avvenuta all’incirca nello stesso periodo e per le stesse finalità, era stata l’aver spezzato il loro legame con la terra. E analoghe le conseguenze.

Tributo alla terra è un’opera splendida e importante: leggerla è stato un bel modo di concludere il 2023.


TRE FILM

Sono andato al cinema molto meno di quanto avrei voluto quest’anno e sicuramente mi sono perso per strada film che avrebbero meritato di essere citati qui. Tra i pochi che ho visto, ecco i tre che mi sono piaciuti di più.

Al terzo posto L’ultima notte di Amore di Andrea Di Stefano, di cui ho scritto qui.

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Al secondo The Old Oak di Ken Loach.

Sul podio c’era spazio per uno solo tra questo e Il sol dell’avvenire di Nanni Moretti, che pure ho apprezzato molto. Sono due film che si somigliano per il sentimento di fondo da cui sono ispirati: il mondo in cui viviamo è orribile, ma esiste una via d’uscita e va cercata nella capacità che ci hanno fatto dimenticare, ma che non abbiamo perso, di provare pietà ed essere solidali con gli altri.

Entrambi i film dunque sono un’espressione di ottimismo, tanto più significativa alla luce dei precedenti dei due autori, in particolare, per Loach, il feroce Sorry We Missed You che non lasciava nessuno spazio alla speranza, nessuna via d’uscita.

The Old Oak unisce alla precisione quasi documentaristica con cui racconta un’ordinaria storia di immigrazione e razzismo, alla descrizione spietata e priva di qualsiasi indulgenza delle trasformazioni antropologiche che una classe operaia spezzata ha subito dopo innumerevoli sconfitte (e all’analisi lucidissima del legame tra quelle sconfitte e la regressione culturale, sociale e in definitiva politica di un ampio strato di quella classe), l’idea che ci sia uno spazio per l’umanità, e che questo spazio vada ricercato ancora nell’unità e nella lotta di classe.

Con il realismo a tratti estremamente crudo di gran parte del racconto contrasta il tono quasi favolistico del finale: segno che siamo ancora abbastanza lontani dal traguardo. Ma la strada è tracciata, ed è l’unica possibile per sfuggire alla barbarie.

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Il miglior film che ho visto al cinema nel 2023 è Killers of the Flower Moon di Martin Scorsese.

Non a caso, un’opera che affronta un tema simile a quello raccontato da Joe Sacco in Tributo alla terra: la storia della Nazione Osage è simile per molti aspetti a quella dei Dene dei Territori del Nord Ovest, soprattutto in entrambi i casi è la storia di come il colonialismo e il capitalismo hanno letteralmente distrutto un popolo e la sua cultura.

Scorsese la descrive con una maestria inimitabile (che non scopro certo io, e nemmeno oggi) nel raccontare per immagini, grazie ad attori baciati dal talento, da Robert De Niro a Leonardo Di Caprio.

Per di più, è una storia ben poco nota (almeno, al grande pubblico tra cui mi colloco), quella degli Osage prima scacciati dalle loro terre, improvvisamente toccati dalla fortuna dell’oro nero nelle riserve in cui erano stati confinati e immediatamente spossessati della loro nuova ricchezza, e tanto più grottesca in quanto è storicamente vera.

Scorsese gioca con i registri e riesce a instillare un disagio viscerale verso una delle pagine più spregevoli della storia del colonialismo occidentale. Un pugno nello stomaco, ma allo stesso tempo una gioia per gli occhi. Chapeau.


TRE SERIE TV

Una principalmente per affetto, le altre due perché davvero emozionanti.

Al terzo posto (è quella per affetto) la terza stagione di The Mandalorian (Disney+), di cui ho scritto in una delle mie non infrequenti sortite su FantasyMagazine.

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Al secondo The Bear (Disney+), di cui nel 2023 è uscita la seconda stagione. Io l’ho vista di fila alla prima, ed è stata una cavalcata piacevolissima, come non mi capitava da tempo. Straordinaria la scrittura, intesa come dialoghi ma soprattutto come struttura della narrazione: un mosaico di cui è impossibile vedere il disegno complessivo fino a quando non viene piazzata anche l’ultima tessera, e allo stesso tempo un crescendo drammatico di anticipazione che trova puntualmente una realizzazione spiazzante.

Profonda e coinvolgente, anche grazie a una recitazione strepitosa, la costruzione di tutti i personaggi, funzionale alla trama ma anche capace di emozionare. Una regia che non ha nulla da invidiare al miglior cinema d’autore, con momenti altissimi come il finale della prima stagione e il lungo episodio “natalizio” della seconda.

Perché una serie così, paragonabile alle migliori stagioni di Breaking Bad e Better Call Saul, è solo seconda sul podio?

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Perché sul gradino più alto ci va The Last Of Us (Sky).

Potrebbe sembrare facile, prendere uno dei videogiochi narrativi migliori mai realizzati e trarne una serie TV; ma i rischi sono innumerevoli: se lo fai uguale, rischi di annoiare chi quella storia la conosce già; se te ne distacchi, tradisci l’originale.

Gli autori di The Last Of Us hanno vinto una sfida che in realtà era difficilissima, realizzando una storia che è assolutamente fedele a quella del videogioco, in cui chi ha giocato può facilmente riconoscere perfino intere sequenze, ma che non per questo è meno godibile e appassionante.

Soprattutto, hanno creato un’opera che è del tutto indipendente dalla fonte originaria, e questo perché hanno saputo raccontare la stessa storia con il linguaggio proprio del cinema, che è ovviamente molto più sofisticato anche della più cinematografica delle messe in scena videoludiche.

La regia è proprio il punto forte della serie, con vette davvero emozionanti come l’intero terzo episodio (Long, Long Time), in cui una storia collaterale che nel gioco era appena accennata (attraverso biglietti trovati qua e là) è stata sviluppata e raccontata quasi soltanto per immagini e musica (la musica dolcissima di Max Richter), con pochissimo dialogo.

Dunque gli autori sono stati in grado di mostrare la stessa vicenda anche sotto aspetti che nel gioco erano stati appena accennati, e soprattutto di esplorare più a fondo la psicologia dei personaggi, in particolare dei personaggi principali.

È grazie a questo sforzo e a questo talento che una storia già di per sé straordinariamente emozionante e appassionante è stata resa ancora più coerente, ricca di significato, in definitiva migliore.

Speriamo che il 2024 ci regali ancora perle di questa bellezza.

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