Diario australiano (agosto 2022)

GIORNO 1 – MELBOURNE

Melbourne

Lo skyline della città è spettacolare. A colpirmi di più però è il sottofondo dei versi degli uccelli, diverso dal nostro: un po’ come sentire il muezzin invece delle campane.

Breve riassunto della prima giornata: abbiamo combattuto il jet lag con abnegazione, facendo un primo giro di ricognizione del centro della città, con tappa in un negozietto nerd in cui abbiamo preso il primo souvenir del viaggio e poi a Chinatown per il pranzo (via Paolo Sarpi spostati proprio) e solo una breve pennica sulla sdraio pubbliche di Federation Square.

Dopo il successivo giro in barca sullo Yarra, complice il rollio dell’imbarcazione, il tepore del tè caldo e l’accento cantilenato della guida australiana, Martina ha ceduto e io ne ho approfittato per un pellegrinaggio nei luoghi degli Australian Open: che emozione scendere nei campi aperti (Djokovic rosica!)

Poco dopo ha ceduto, inaspettatamente, anche il mio cellulare: per preservare la possibilità di consultare la mappa della città l’ho spento quando la batteria era al 2%.

Per fortuna potevo contare sul mio senso dell’orientamento!

Dopo un’ora, durante la quale mi sono imbattuto del tutto casualmente in un paio di luoghi stupendi e sono stato inseguito da uno stormo di pappagalli in un parco, non avevo la minima idea di dove fossi finito. Un fugace sguardo al telefono prima del suo spegnimento definitivo: ero a un paio di chilometri dal punto in cui pensavo sarei stato. Poteva andare peggio…

Una Martina rinfrancata mi attendeva in albergo. Giusto in tempo per un’ultima passeggiata sul lungo fiume fino al thailandese dove abbiamo cenato (benissimo).

Stanco morto ma felice, anche di aver sconfitto il jet lag, per le 21.30 sono svenuto nel letto.

GIORNO 2 – MELBOURNE E PHILLIP ISLAND

Canguro e cangurino

Oggi (cioè ieri) è stato uno dei giorni più emozionanti della mia vita, e ho scoperto di non avere il cuore di pietra che alcuni mi attribuiscono.

Ma andiamo con ordine.

Il programma prevedeva, dopo una piacevole passeggiata alla scoperta della Southbank, un’escursione guidata a Phillip Island, con alcune tappe intermedie.

La prima era la spiaggia di Brighton, con le sue coloratissime bathing boxes: cabine (capannine, per la verità) per cambiarsi in spiaggia, l’ultima delle quali è stata venduta recentemente al prezzo di un bilocale in Porta Venezia a Milano (o di un quadrilocale in periferia).

La seconda il Moonlit Sanctuary: un parco naturale in cui si trovano animali locali più o meno in pericolo di estinzione, a contatto (controllato) con il pubblico. Se per Martina il momento indimenticabile è stato quello in cui ha potuto accarezzare il koala (che per parte sua se ne stava lì a chiedere dell’altro eucalipto), per me è stato quello in cui un wallaby mi ha appoggiato la zampina sulla mano per avvicinarsi meglio al cibo che gli stavo offrendo. Quelle ditine!

Infine Phillip Island, già di suo incantevole, dove abbiamo assistito allo spettacolo miracoloso di centinaia di pinguini che al tramonto escono dal mare per raggiungere i loro nidi.

Che bellezza! Dobbiamo davvero ringraziare la nostra guida Raquel che ci ha accompagnato per tutta la giornata, guidando e spiegando nel migliore dei modi.

GIORNI 3, 4 E 5 – ON THE ROAD DA MELBOURNE A VICTOR HARBOR

Lungo la Great Ocean Road

Martedì siamo partiti in auto da Melbourne diretti a ovest, lungo la strada costiera. La nostra prima esperienza con la guida a destra è stata tutto sommato meno problematica del temuto, se non fosse per la leva delle frecce, che continuiamo entrambi a confondere – in media una volta su tre – con quella dei tergicristalli.

La prima giornata abbiamo percorso la Great Ocean Road fino a Warrnambool. Ci siamo fermati a pranzo nel pub situato più a sud dell’Australia continentale, dove abbiamo assaggiato una IPA eccezionale, e abbiamo proseguito alternandoci alla guida fino ai Dodici Apostoli, una serie di spettacolari monoliti di roccia che affiorano dall’oceano.

Incantati da tanta bellezza, abbiamo tirato un po’ troppo tardi e ha fatto buio prima che fossimo a destinazione. Guidare con l’oscurità (anche se erano solo le sei e mezza del pomeriggio) è stata un’esperienza probante e a tratti surreale, specie quando *un canguro* ci ha attraversato la strada a pochi metri. Eviteremo di ripeterla.

La mattina dopo abbiamo esplorato i dintorni di Warrnambool, nota soprattutto perché si tratta di uno dei pochi punti da cui si può osservare nei mesi invernali il passaggio delle balene. Abbiamo scoperto così che gli umarelli di questa zona, anziché i cantieri, vanno quotidianamente a vedere i cetacei, con tanto di binocolo. Grazie alla loro competenza abbiamo potuto scorgerne due esemplari nemmeno tanto al largo.

Il tratto di strada successivo non è stato altrettanto interessante, ed è stato inoltre funestato da una fastidiosa scoperta: devo aver lasciato la patente all’agenzia Hertz di Melbourne. Ho provato a contattarla per averne conferma ma finora senza successo. Fortuna che c’è Martina.

Inoltre, a furia di azionare i tergicristalli a vanvera, è pure venuto a piovere, proprio in vista dell’arrivo a Robe, dove se non altro abbiamo cenato squisitamente in un locale che pareva un pub, ma aveva in realtà piatti piuttosto sofisticati (al costo del pub).

Il terzo giorno on the road fortunatamente (e inaspettatamente) è cominciato con il cielo azzurro e poche nuvole.

Abbiamo costeggiato una laguna, riserva naturale, sulla costa e ci siamo fermati per un pranzo al sacco in un parco molto grazioso, sotto lo sguardo interessato e vagamente ostile di un piccolo stormo di gabbiani.

Nel pomeriggio abbiamo fatto tappa nella cittadina di Mannum, sulle rive del fiume Murray prima di puntare la nostra destinazione finale, Victor Harbor.

Il tempo ha retto quasi fino all’arrivo, salvo una spruzzata di pioggia che ci ha regalato un magnifico arcobaleno: c’è talmente tanto “nulla” qui intorno che si riusciva a vederne entrambe le estremità fino al suolo.

In effetti, per gran parte dei cinquecento chilometri malcontati che abbiamo percorso negli ultimi due giorni, sono stati soprattutto pascoli sterminati a fare da contorno alla nostra strada.

Questi spazi sconfinati che si allungano a perdita d’occhio, insieme alla quasi totale assenza di altri veicoli, sono l’aspetto più suggestivo di questo viaggio in macchina. È praticamente Mad Max (il primo) ma per fortuna senza motociclisti assassini.

GIORNI 6 E 7 – KANGAROO ISLAND

L’otaria dormigliona

La prima buona notizia della giornata, mentre attendiamo il traghetto da Cape Jervis a Penneshaw, è che la mia patente è stata ritrovata: mi ha chiamato di prima mattina un tale dell’agenzia di autonoleggio di Melbourne, scusandosi per il _loro_ errore. Me la spediranno direttamente all’hotel di Cairns dove arriveremo tra una decina di giorni. Nel frattempo posso tornare a guidare sereno.

La seconda buona notizia, una volta sbarcati a Kangaroo Island, è che contro ogni previsione il tempo sembra tenere.

Nel dubbio, senza nemmeno passare dal via e saltando anche il pranzo ci precipitiamo a Seal Bay, dove una guida italiana ci porta a conoscere da vicino le otarie, nel loro habitat tra l’oceano, la spiaggia e la collinetta sovrastante.

[A proposito – quesito per solutori più che abili: su quale oceano si affaccia Kangaroo Island? La risposta corretta nella prossima puntata.]

Arriviamo puntuali a Kingscote per l’appuntamento con Luca, altra guida italiana che ci porta su un fuoristrada a vedere la fauna selvatica all’ora del crepuscolo, quando la vegetazione intorno alla cittadina comincia ad animarsi (al contrario della cittadina che invece si spegne, letteralmente, come tutti i paesini che abbiamo attraversato in questi giorni).

Mentre ci racconta (in italiano: siamo nuovamente tutti italiani) aneddoti e anche un po’ della sua vita, Luca ci conduce tra pellicani, canguri, wallaby, koala, opossum e pinguini, in un tour di più di due ore che passano davvero in fretta.

La sera ci addormentiamo con il suono del diluvio oltre la finestra: le previsioni per il giorno successivo (cioè oggi) sono nerissime.

E invece no.

Arriviamo relativamente presto alla riserva di Flinders Chase, che occupa tutta la parte occidentale dell’isola ed è stata una delle maggiori vittime degli incendi che l’hanno devastata nel gennaio 2020. Le piante stanno ricrescendo, più o meno velocemente, ma i koala sono stati ridotti a un decimo della loro popolazione e anche le infrastrutture del parco sono state distrutte. Alcune aree sono ancora in via di ricostruzione e chiuse al pubblico, ma quel che è accessibile vale comunque da solo il viaggio.

Nell’estremità sudoccidentale del parco, in particolare, sono raggiungibili l’Admiral Arch, dove riposano decine di adorabili otarie, e un complesso roccioso davvero notevole chiamato – con grande originalità – Remarkable Rocks: una formazione granitica che vento e onde hanno scolpito come fossero Dalì.

Nel pomeriggio rientriamo a Kingscote (dalla parte opposta dell’isola) senza riuscire a visitare altri parchi perché in questa stagione chiudono tutti alle quattro (!) ma fermandoci in compenso ad assaggiare prima il famoso fish burger del General Store di Vivonne Bay, e poi il gin della distilleria più antica di tutta l’Australia.

È cultura anche questa.

GIORNI 8 E 9 – ADELAIDE E DINTORNI

Il canguro sciallato

[La risposta più corretta al quesito della scorsa puntata: Kangaroo Island si affaccia su quello che noi chiamiamo Oceano Antartico e loro Southern Ocean. Su qualche cartina però è effettivamente indicato l’Oceano Indiano, e c’è perfino chi ritiene che si tratti del Pacifico].

Se Martina aveva segnato in rosso sul calendario tutti gli appuntamenti con la pucciosa fauna locale, la mia personale crocetta era sulla tappa intermedia tra Kangaroo Island e Adelaide: la degustazione di vino con annesso pranzo nella cantina Wirra Wirra nella McLaren Vale.

Non ha tradito le attese. Un ragazzotto sorridente ci ha condotto in un affascinante doppio percorso parallelo di cinque vini ciascuno, alcuni dei quali davvero notevoli.

Siamo arrivati ad Adelaide a metà pomeriggio e abbiamo fatto subito una passeggiata verso i famosi giardini botanici, attraversando la zona universitaria e quella dello struscio. La prima impressione, tolta la zona dei campus che mi ha riempito di invidia (per la gioventù soprattutto) è quella di una versione più grande (ma nemmeno troppo) delle cittadine che abbiamo incrociato nei giorni scorsi. Edifici bassi, porticati e facciate dal sapore a metà strada fra coloniale e western, negozi chiusi alle cinque.

Avevano appena chiuso al pubblico anche i giardini botanici, perché – come abbiamo scoperto sul posto – vi si teneva l’ultima serata di Light Cycles, uno spettacolo di luci e suoni ambientato all’interno del parco. Non avendo altri programmi, abbiamo preso due costosi biglietti e siamo entrati, non appena calato il sole. Lo spettacolo valeva ogni singolo dollaro. Lungo un sentiero illuminato che abbiamo percorso in un paio d’ore, installazioni di luci accompagnate da colonne sonore originali si adattavano alle singole zone dei giardini, con un effetto meraviglioso che ci ha lasciati a bocca aperta.

La mattina seguente di buon’ora siamo saliti al Cleland Wildlife Park, sulle colline a Nord-est della città. A differenza del parco che avevamo visitato sulla strada per Phillip Island, questo è enorme e ci abbiamo trascorso l’intera giornata, tra marsupiali di ogni specie e misura (e anche uccelli e dingo). E sì, abbiamo tenuto in braccio un koala. Un’esperienza, tutta quanta, che non dimenticheremo.

Siamo rientrati giusto in tempo per una puntata a Glenelg, il sobborgo di Adelaide sul mare dove ci siamo goduti il tramonto, appena sotto le nuvole che ci avevano inseguito tutto il giorno senza però mai bagnarci di pioggia. Tra le altre cose, dunque, abbiamo imparato che anche in Australia le previsioni del tempo (che minacciavano temporali per tutti gli ultimi quattro giorni) sono poco affidabili.

GIORNI 10, 11 E 12 – IL RED CENTRE

Tramonto a Uluṟu

Nella notte di Adelaide abbiamo abbandonato l’auto che ci aveva fedelmente servito nella settimana precedente, per più di duemila chilometri: ci mancherà.

Un volo antelucano ci ha portati ad Alice Springs, tappa logisticamente obbligata verso la nostra vera destinazione: Ayers Rock e Uluṟu.

La giornata ad Alice Springs è trascorsa sonnolenta, con l’unico punto esclamativo della visita al rettilario, dove Martina ha tenuto in braccio prima un lucertolone e poi un pitone, sotto il mio sguardo non del tutto sereno.

La mattina dopo all’alba una corriera ci ha trasferito ad Ayers Rock, in un viaggio di sei ore in uno scenario alieno, in cui una distesa piatta di terra ocra è punteggiata dal bush e da alberelli isolati.

Siamo infine arrivati al grande resort che a quanto pare è praticamente l’unica alternativa per dormire nelle vicinanze del gigantesco monolite sacro.

Il nostro programma – in questo caso organizzato dall’agenzia – prevedeva due visite: una all’alba, con annessa colazione, e una al tramonto, con un piccolo aperitivo.

Per il resto del tempo abbiamo fatto vita “da villaggio”, molta piscina (ma poco bagno, l’acqua era glaciale) e qualche attività organizzata: la più affascinante, di gran lunga, una visione guidata del cielo notturno dell’emisfero australe.

Ho lasciato in fondo, di proposito, ogni giudizio su questi ultimi tre giorni nel “Centro rosso” dell’Australia. Per me sono un grande punto interrogativo, che ruota tutto intorno al rapporto tra i discendenti dei colonizzatori e la popolazione aborigena. La lettura intensa di Chatwin in questi stessi giorni ha acuito ulteriormente l’ambivalenza dell’esperienza.

Per la prima volta nella mia vita, ad Alice Springs ho provato la sensazione di trovarmi in un luogo “sbagliato”, che neppure avrebbe dovuto esistere. Il contrasto tra i bianchi (turisti benestanti e negozianti locali) e gli aborigeni che si aggirano penosamente nelle stesse strade, non avrebbe potuto essere più stridente e spiacevole.

Nel resort di Ayers Rock il contrasto è meno disturbante, ma la mia impressione netta è che si tratti in gran parte di una recita collettiva a uso e consumo dei turisti.

Il Voyages, che si definisce “resort indigeno”, ci accoglie con il saluto tradizionale della lingua locale, e a ogni piè sospinto mostra di “riconoscere i proprietari tradizionali della terra, passati presenti e futuri”.

Ma questi “proprietari” sono perlopiù addetti alle pulizie o camerieri all’interno della struttura. Il centro si fa anche vanto di ospitare numerosi giovani apprendisti dell’equivalente di una nostra scuola alberghiera, l’Accademia di Kulata specificamente destinata a inserire i giovani indigeni nel settore del turismo. Il che peraltro probabilmente significa anche disporre di manodopera a basso costo.

Viene dato molto risalto anche all'”arte aborigena”, esibita e venduta un po’ ovunque a prezzi da galleria. È arte moderna, nata da un progetto governativo degli Anni Settanta per creare uno sbocco commerciabile alla cultura tradizionale indigena, apparentemente destinato anche a supportare finanziariamente le comunità indigene.

Oltre che nei negozi del resort (e anche di Alice Springs) le opere sono vendute anche dagli stessi aborigeni, che le espongono per terra davanti ai turisti nelle varie piazzette.

È difficile (impossibile) individuare il punto in cui finisce il progetto di integrazione e condivisione culturale (che pure innegabilmente esiste) e dove comincia lo sfruttamento. E a monte è pure estremamente discutibile la legittimità di una simile “integrazione”, che si traduce in fin dei conti in una mercificazione (e quindi alienazione) di una tradizione culturale e spirituale fortemente riservata agli iniziati.

In questo contesto, l’esperienza di Uluṟu, comunque incredibilmente spettacolare, ne esce un po’ spoilerata, anche per via delle modalità da gita organizzata che, in così poco tempo, paiono le uniche possibili.

Per certi aspetti mi ha emozionato di più la visione dello straordinario cielo notturno, magistralmente guidata dall’appassionato autodidatta Todd. L’esperienza di posare lo sguardo per la prima volta su corpi celesti e costellazioni invisibili nel nostro emisfero (alla nostra latitudine) – da Alpha Centauri alla Croce del Sud – insieme alla preziosa lezione di astronomia “for dummies” che mi ha fornito alcune coordinate basilari per apprezzarli, mi ha lasciato davvero a bocca aperta per la meraviglia.

Ce ne voliamo a Sydney senza troppi rimpianti, e allo stesso tempo con grandi rimpianti.

GIORNI 13, 14 E 15 – SYDNEY

Harbour Bridge e Opera House

Tre giorni sono nulla per giudicare una metropoli e il suo stile di vita. Ma da quel poco che abbiamo sperimentato, Sydney è una città spettacolare, come si intuisce già dal cielo, nei minuti precedenti l’atterraggio: una successione di insenature, penisole e isolotti che raggiungono dopo molte giravolte l’oceano.

Ci siamo arrivati al tramonto, che trovandoci nel punto più orientale che toccheremo nel viaggio, e parecchio a sud, scende molto prima che nel Red Centre, nonostante la mezz’ora di fuso orario guadagnata.

Per fortuna, ed è una differenza notevole rispetto alle altre due grandi città che abbiamo visitato – Melbourne e Adelaide (per non parlare dei paesini) – qui pare esserci una certa vita anche dopo il calar del sole. Quando siamo arrivati da Hubert, un ristorante francese che mi ero appuntato nel mio personale programma, alle otto di sera, il locale era nel pieno dell’attività e ha continuato a riempirsi nelle due ore successive, tra le note di un trio jazz. È stata anche la cena migliore da quando siamo in Australia, pur senza spendere di più che altrove.

Il giorno successivo ci attendeva un tour de force.

Dall’albergo, in pieno centro, ci siamo diretti verso Darling Harbour per poi pranzare al grande mercato del pesce, dove Martina ha salvato una mezza aragosta da un tragico destino di formaggio e bacon – con reciproca soddisfazione.

Abbiamo seguito il lungo mare attraverso una successione di moli e banchine scintillanti, riqualificati di fresco, alternati a riserve naturali; quindi ci siamo inerpicati sulla collina dell’osservatorio che ci ha regalato il primo scorcio di Harbour Bridge e dove abbiamo assistito ai preparativi di un matrimonio indiano.

Attraversato il mercato di The Rocks, siamo finalmente arrivati al Circular Quay, la baia principale della città, in fondo al quale ci attendeva, giusto al tramonto, la celeberrima Sydney Opera House.

Una meraviglia da fuori, il complesso di teatri è stupefacente anche all’interno. Per goderlo nel migliore dei modi, avevamo due biglietti per un concerto sinfonico, a sua volta magnifico: il pezzo forte era una rivisitazione delle Quattro Stagioni di Vivaldi, ad opera del compositore Max Richter, che le ha “ricomposte” in chiave moderna (no, non ha eliminato le mezze stagioni).

Il giorno dopo era domenica, e ci siamo comportati di conseguenza.

Dopo una passeggiata ai lussureggianti giardini botanici, abbiamo preso il traghetto da Circular Quay per una piacevole gita fino alla baia di Watson, dove abbiamo pranzato praticamente in spiaggia: vantaggi del 33° parallelo.

Poi abbiamo raggiunto in autobus la spiaggia di Bondi e abbiamo passeggiato sul lungomare sopra le scogliere finché la stanchezza (soprattutto quella arretrata) ha avuto la meglio.

Tempo di partire di nuovo ora, verso la regione del tropico. Alla prossima, Sydney!

GIORNI 16, 17, 18 E 19 – CAIRNS E DINTORNI

Sorvolando la foresta pluviale

Dopo due settimane tra metropoli ultramoderne, scogli battuti dall’oceano antartico e deserti di rocce rosse, quella sul Pacifico tropicale avrebbe dovuto essere una tappa di relax, prima di cominciare il viaggio a ritroso verso casa.

Ci siamo in effetti sostanzialmente riposati il giorno del nostro arrivo. Nei successivi invece, non si sa come, il nostro programma si è rivelato più fitto e impegnativo che mai.

Della gita, programmata dall’agenzia di viaggi, nella foresta tropicale di Daintree e sulla spiaggia di Cape Tribulation, gli unici momenti davvero memorabili sono la mezz’ora in chiatta sul fiume Daintree, in cui abbiamo conosciuto da vicino i coccodrilli, e – a sorpresa! – il gelato del frutteto tropicale nella giungla: non ho timore di dichiararlo il migliore che abbia mai assaggiato.

Il resto, francamente, è stato ben al di sotto delle aspettative per via della solita modalità “gita parrocchiale” che a quanto pare è la preferita delle agenzie di viaggi – ragione per cui non si dovrebbe mai farsi organizzare il viaggio dall’agenzia, ma tant’è.

Il nostro secondo giorno ai tropici è stato effettivamente all’insegna dello sciallo. In autobus abbiamo raggiunto una spiaggia circondata da palmizi e quasi deserta – anche perché c’era un gran vento e l’acqua dell’oceano non era poi così invitante.

Per consolarci, la sera abbiamo cenato a base di crostacei su una barchetta ormeggiata al molo.

Nei due giorni successivi Martina e io ci siamo spinti a vicenda oltre le rispettive comfort zone.

Prima, nonostante il vento del giorno prima fosse ulteriormente aumentato, abbiamo sfidato un oceano particolarmente mosso per vedere la barriera corallina e i suoi abitanti, una trentina di chilometri al largo della costa.

Non è stato il mio giorno più glorioso.

Martina però ha visto una tartaruga marina sotto di sé, durante lo snorkeling guidato (io ero troppo impegnato a non annegare tra i flutti, anche se qualcosina di notevole l’ho vista), perciò le mie quattro ore di sudori freddi sono stati ben compensati. Inoltre mi sono seduto su un atollo in mezzo all’oceano, e anche queste sono soddisfazioni. Inutile dire che del fastoso buffet servito a bordo non ho voluto sentire neppure l’odore.

Oggi però ho avuto la mia rivincita. Siamo tornati nella giungla, ma questa volta a bordo di una cabinovia sospesa sopra la foresta pluviale. La traversata di una quarantina di minuti, con due scenografiche tappe intermedie e un’eccellente app che fornisce le informazioni principali durante il viaggio, è senza alcun dubbio il modo migliore di scoprire questa meraviglia della natura: la foresta più antica del pianeta, vecchia di 200 milioni di anni, con singoli alberi che esistevano già al tempo di Shakespeare. Martina, che non è proprio a suo agio con le altezze, è comunque riuscita ad apprezzare almeno in parte.

Siamo rimasti circa tre ore nella cittadina turistica di Kuranda e nei suoi dintorni boscosi, per poi riattraversare la giungla questa volta a bordo di un treno, lungo un tracciato che sarebbe piaciuto a Herzog.

Di gran lunga la mia giornata preferita tra quelle trascorse al tropico, e una delle migliori di tutta la vacanza.

GIORNI 20 E 21 – PERTH E DINTORNI

Il quokka!

È arrivato il momento di confessare, ai pochi che non lo sanno, che il vero scopo di questo viaggio in Australia era incontrare i quokka: sorridenti marsupiali dall’aspetto di simpatici topoloni. L’unico luogo dove è possibile vederli liberi nel loro habitat è Rottnest Island, una decina di chilometri al largo di Perth. E così Perth è stata l’ultima tappa del nostro cammino, per finire in bellezza.

Con l’occasione, abbiamo visitato il sesto stato diverso (ci mancano Tasmania e Territorio della Capitale Australiana, per la prossima volta) e abbiamo solcato il terzo Oceano (quello Indiano, dopo Antartico e Pacifico) del viaggio.

La traversata stavolta è stata più breve e molto meno traumatica della precedente, oltre che rallegrata dallo spettacolo delle balene, più numerose e ben più vicine di quanto le avessimo viste a Warrnambool.

Sull’isola abbiamo noleggiato due biciclette con l’idea di imitare il nostro amico Muriel (si parva licet…). Vento e anche una spruzzata di pioggia ci hanno complicato un po’ la vita, ma tutto sommato abbiamo fatto un bel giro. Il luogo di suo è splendido e in molti tratti pressoché incontaminato, al punto che è possibile imbattersi in nidi di rapaci inerpicati tra le scogliere.

Ma i quokka? I quokka vivono nelle zone più antropizzate dell’isola e sono molto socievoli (nonostante sia vietato nutrirli e addirittura toccarli), ma siamo riusciti a incontrarne qualcuno appena fuori dal minuscolo abitato, con conseguenti servizi fotografici. È stata una delle giornate più divertenti e incantevoli del viaggio.

Rientrando, abbiamo avuto il tempo di berci una birra nella graziosa cittadina di Fremantle, il “porto” di Perth, prima di cedere alle fatiche del ciclismo (e a quelle accumulate nelle ultime tre settimane) e andare a dormire alle nove.

La nostra ultima mattina nell’emisfero australe l’abbiamo trascorsa nel giardino botanico di Perth, ancora più grande di quelli di Adelaide e di Sydney e almeno altrettanto piacevole.

Un pranzetto in un birrificio sui moli di Elizabeth Quay, un ultimo giro in centro per completare la raccolta di souvenir e regalini, e… That’s it.

È stato senza alcun dubbio il viaggio più straordinario della mia vita. E grazie a Martina per averlo proposto e averlo reso ancora più memorabile.

Condividete se vi piace!

Leave a Reply

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.