I protocolli degli stolti

In vista dell’ormai prossima “Fase 2”, con l’annunciata riapertura di quelle poche attività produttive ancora chiuse, Confindustria e sindacati, con i buoni uffici del governo, hanno sottoscritto un nuovo protocollo per il contrasto del contagio sui luoghi di lavoro.

In realtà è identico al precedente, tranne per poche minuscole differenze, che ho individuato per voi.

  1. Essendo trascorso ormai un po’ di tempo dall’inizio dell’epidemia, era necessario prevedere che succede per chi, già contagiato, nel frattempo è guarito: per questi lavoratori sarà sempre necessaria la visita preventiva del medico competente (come normalmente avviene al rientro da una malattia durata più di 60 giorni), previo rilascio di una certificazione medica da cui risulti la “avvenuta negativizzazione” del tampone. Qui sorge un problema: posto che sembrerebbe che questa sia un requisito essenziale per poter rientrare al lavoro, siamo sicuri che sia così semplice ottenere tamponi per i lavoratori guariti?
  2. La sanificazione straordinaria degli ambienti, che prima era obbligatoria soltanto in caso di acclarata presenza di una persona affetta dal Covid-19, ora è prevista in via obbligatoria anche “alla riapertura” (quindi solo per le aziende che avevano davvero chiuso), ma solo nelle aree geografiche più esposte (quali, esattamente?) e “nelle aziende in cui si sono verificati casi sospetti” di Covid-19.
  3. Un brevissimo punto solo sul fatto che il sapone per le mani ora non dev’essere più solo nei bagni, ma anche in “specifici dispenser collocati in punti facilmente individuabili” (che poi, magari, sono sempre i bagni, ma scritto in modo che sembra più efficace).
  4. Il pasticcio delle mascherine – obbligatorie o non obbligatorie? – diventa sempre più ingarbugliato. Nel primo protocollo era precisato che i firmatari ben sapevano che le mascherine poteva non essere semplice trovarle, per cui avevano precisato che il loro utilizzo fosse “evidentemente legato alla disponibilità in commercio“, benché rimanesse obbligatorio nel caso fosse necessario lavorare a distanza inferiore a un metro. Non era chiaro che cosa dovesse succedere qualora non fosse comunque possibile trovare le mascherine: infatti non era espressamente stabilito che l’attività dovesse fermarsi. Ora la previsione (obbligo? “è previsto“, dice il protocollo) di indossare dispositivi di protezione individuale, tra cui le mascherine chirurgiche, è esteso in generale “per tutti i lavoratori che condividono spazi comuni“. Tuttavia rimane ferma la premessa secondo cui “l’adozione delle misure d’igiene e dei dispositivi di protezione individuale indicati nel Protocollo, benché fondamentale, “è evidentemente legata alla disponibilità in commercio“. Dunque, in linea di principio, si va avanti anche se le mascherine, “previste”, non ci sono. Tanto è vero che qualche punto sotto gli estensori si sentono in dovere di precisare che, nel caso si debba isolare un lavoratore che presenti i sintomi del virus, questi “deve essere subito dotato ove già non lo fosse, di mascherina chirurgica“. Insomma, facciano (continuino a fare) un po’ come gli pare.
  5. Infine, posto che l’applicazione delle misure continua in sostanza a essere rimessa alla discrezionalità degli imprenditori, quis custodiet custodes? Semplice: nella maggior parte dei casi, ipsos custodes. Ossia, nelle aziende in cui esiste una rappresentanza sindacale, si presume sia questa a vigilare sull’osservanza delle misure di sicurezza, all’interno di appositi comitati aziendali. Peccato che moltissime aziende, soprattutto medie e piccoli, dei sindacati non si vede l’ombra. In questi casi – e qui sta la “novità” del nuovo protocollo, la sorveglianza sarà rimessa a comitati territoriali, eventualmente con la partecipazione delle autorità sanitarie locali. Qualche decina di persona dovrebbe insomma controllare l’attività di centinaia o migliaia di attività produttive: servono davvero i superpoteri!

In sostanza, dunque, non cambia nulla.

È interessante a questo punto dare uno sguardo anche a un altro documento, pubblicato lo stesso 24 aprile, relativo alla prevenzione del Covid-19 in una specifica categoria di ambienti di lavoro: i cantieri. I firmatari sono più o meno gli stessi, ma si aggiungono questa volta il Ministero delle infrastrutture e dei trasporti, l’associazione dei Comuni, alcune grandi società delle infrastrutture a partecipazione pubblica (Anas, RFI).

Qui le parti hanno inserito in premessa un inciso apparentemente superfluo:

Il COVID-19 rappresenta, infatti, un rischio biologico generico, per il quale occorre adottare misure uguali per tutta la popolazione.

In realtà superfluo non è. Serve invece a dare una pezza d’appoggio alla tesi per cui, di fronte alle modifiche organizzative e produttive imposte dall’epidemia, non è comunque necessario ai datori di lavoro modificare il documento di valutazione dei rischi. Incombenza che porrebbe gli imprenditori di fronte a responsabilità complesse.

Quanto ai contenuti, questo protocollo richiama i due “generali” ma li integra con un contenuto maggiormente precettivo: in particolare prevede, nella sua appendice conclusiva, una serie di ipotesi in cui l’impossibilità di osservare le misure di sicurezza (ad esempio per insufficienza delle mascherine, ma anche per impossibilità di contingentare gli accessi agli spazi comuni o di riorganizzare il cantiere per attuare un’efficace isolamento dei lavoratori entrati in contatto con un contagiato, o ancora di “mettere in sicurezza” eventuali dormitori necessario al pernottamento dei trasfertisti) rende obbligatoria la sospensione temporanea dell’attività.

Intendiamoci, non è che gli imprenditori edili siano più “buoni” dei loro colleghi (né che i sindacati del settore siano più combattivi degli altri): il fatto è che nell’edilizia è diffusa la prassi delle penali in caso di ritardo nel completamento dei lavori. Dunque serve agli imprenditori per primi prevedere precise cause di esclusione della responsabilità, per pararsi le spalle nei casi in cui convenga innanzitutto a loro sospendere l’attività.

In compenso questa previsione mette in risalto come, al contrario, al di fuori del settore cantieristico l’impossibilità di provvedere efficacemente alla sicurezza dei lavoratori e di rispettare le “linee guida” dei due protocolli non precluda affatto agli imprenditori di continuare a (far) lavorare. Da qui la sostanziale inutilità di quei protocolli, specchietti per le allodole che servono a rassicurare falsamente i lavoratori per evitare che protestino troppo.

Serve invece che i lavoratori protestino moltissimo, meglio se in modo coordinato e con un programma di rivendicazioni chiaro: soltanto così potranno tutelare efficacemente non solo le loro condizioni di lavoro, ma stessa incolumità loro e dei loro cari.

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2 comments

  1. Il commento è puntuale e ho apprezzato che Lei abbia colto la sfumatura dell’obbligatorietà per i cantieri edilii di sospendere “in carenza”. Tra l’altro tale adempimento compete al Coordinatore quindi nulla può venir contestato all’impresa al ricorrere della circostanza (il Coordinatore è un consulente della committenza ed il suo operato oltre ad evitare gli incidenti serve anche ad evitare a quest’ultima le sanzioni).
    Un aspetto del protocollo è però opinabile ed è quello per il quale il rischio derivante dall’esposizione al Covid19 sia generico: Il patogeno è infatti diffuso con diversa incidenza sul territorio; da qui una differenziazione del rischio da contagio per le aziende a seconda del territorio di appartenenza.
    Inoltre coloro che sono tenuti a riprendere l’attività lavorativa soffrono certamente un’esposizione al contagio esponenzialmente superiore rispetto al resto della popolazione, al punto da poter considerare il rischio da contagio un rischio connesso all’organizzazione aziendale.
    Se è vero, quindi, come è vero, che l’eventualità di contagio da Covid-19 non può essere considerata, un rischio professionale di tutte le aziende, è altrettanto vero che lo stesso rischio non può essere rinchiuso nell’angusto concetto di rischio generico.
    A questo proposito, la Commissione Interpelli ha già avuto modo di precisare che l’analisi dei rischi prevista dall’art. 28 del D.Lgs. 81/2008 deve comprendere anche “l’analisi di tutti i potenziali e peculiari rischi ambientali legati alle caratteristiche del Paese in cui la prestazione lavorativa dovrà essere svolta e alle condizioni sanitarie del contesto geografico di riferimento, non considerati astrattamente, ma che abbiano la ragionevole e concreta possibilità di manifestarsi in correlazione all’attività lavorativa” (Interpello n. 19841 del 25/10/2016).

  2. Sono molto d’accordo con questa osservazione e in generale con questa tesi: da questo punto di vista anche il protocollo sui cantieri è più che opinabile.
    Del resto la questione dell’obbligo di aggiornamento del DVR, per via delle conseguenze che porta con sé in termini di responsabilità dei datori di lavoro, è già un campo di battaglia. Segnalo, al riguardo, il recente documento tecnico redatto dall’INAIL che, pur senza giungere ad affermare l’obbligatorietà della modifica del DVR, va proprio nel senso da Lei (te?) indicato:
    https://www.inail.it/cs/internet/docs/alg-pubbl-rimodulazione-contenimento-covid19-sicurezza-lavoro.pdf

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