Al buon cuore dei padroni

Mentre i telegiornali di oggi ci informano di quanti “furbetti” sono stati pizzicati a festeggiare Pasqua e Pasquetta con una passeggiata al parco, oggi è il giorno della riapertura di tutta una serie di esercizi commerciali (cartolerie, librerie, negozi di abbigliamento per bambini, etc.) disposta dall’ultimo DPCM del 10 aprile.

Il decreto contiene anche l’elenco aggiornato – e leggermente ampliato rispetto al decreto del 22 marzo – delle attività industriali consentite, in deroga a quello che solo con un grosso sforzo di fantasia si può definire lockdown.

Nel frattempo, continuano invece a essere rigorosamente vietate attività ricreative all’aperto, anche in forma individuale, e qualunque spostamento è assoggettato al controllo delle autorità e punito se svolto senza comprovato motivo o al di fuori dei “pressi” dell’abitazione.

La scelta politica del governo, dunque, è quella di mantenere i cittadini agli arresti domiciliari in quanto individui, per proteggerli dal contagio, ma allo stesso tempo, in quanto lavoratori, di obbligarli a uscire ed esporsi allo stesso contagio pur di non compromettere eccessivamente i profitti.

Stando ai dati ISTAT, elaborati per l’occasione dall’ente SVIMEZ, soltanto un terzo circa dei lavoratori italiani sarebbe fermo a causa delle chiusure disposte dal governo. Le percentuali variano assai poco tra Nord, Centro e Sud e da regione a regione: nella tanto martoriata Lombardia, su oltre 3 milioni e mezzo di lavoratori dipendenti, meno di 1,5 sarebbero effettivamente fermi, mentre poco meno di 2,5 continuerebbero a lavorare.

Uso il condizionale perché questi dati sono solo teorici, dal momento che si limitano a registrare gli addetti ai vari settori produttivi espressamente consentiti. Non tengono conto però della “deroga alla deroga”, presente già nel decreto del 22 marzo e confermata in quest’ultimo del 10 aprile. Entrambi i provvedimenti infatti contengono un elenco di categorie (identificate con i “codici ATECO” ossia con i settori di produzione) di attività industriali che possono rimanere aperte in quanto considerate “essenziali”, ma specificano che “restano sempre consentite, previa comunicazione al Prefetto […] anche le attività che sono funzionali ad assicurare la continuità delle filiere” di quelle stesse attività essenziali.

In pratica, anche imprese non considerate essenziali possono rimanere aperte, purché avvisino il Prefetto con una sorta di autocertificazione. Naturalmente, il Prefetto può sospenderne l’attività se ritiene che non integrino i requisiti previsti dalla norma. “Naturalmente”, si fa per dire: a quanto pare, infatti le comunicazioni ai Prefetti sono migliaia nella sola Lombardia. Secondo un reportage di Paola Zanca sul Fatto Quotidiano dello scorso 7 aprile, nella sola provincia di Brescia erano quasi 5mila alla data del 6 aprile, con un flusso di oltre 300 comunicazioni al giorno. Per ovvie ragioni, soltanto una piccola parte di queste richieste può essere esaminata, tanto che si stima che la maggior parte non sarà neppure vagliata prima della fine del cosiddetto lockdown. Pure per quelle che verranno effettivamente valutate, non c’è praticamente possibilità di un controllo efficace, dal momento che il decreto non fa neppure distinzione fra attività prevalenti e secondarie di un’impresa: basta che lavori per il 10% all’interno di una categoria “valida”, direttamente o perfino indirettamente, e l’azienda potrà rimanere aperta anche per il restante 90% dell’attività.

Insomma, chi lavora e chi no non lo decide neppure il governo, lo decidono direttamente i singoli padroni, in base alla loro convenienza.

Il peggio è che al loro buon cuore è rimesso pure di organizzare il lavoro in modo tale da salvaguardare il più possibile la sicurezza dei lavoratori rispetto al rischio di contagio. Infatti, come scrivevo un mese fa, il Protocollo sulla sicurezza sottoscritto con i sindacati lascia agli imprenditori la più ampia discrezionalità sulle misure da prendere e sulla loro stessa osservanza, specialmente nelle moltissime aziende in cui non sono presenti rappresentanze sindacali.

Anche dove manca un’efficace tutela collettiva, comunque, ai lavoratori rimangono se non altro gli strumenti della tutela individuale, sicuramente più complicata da agire e da valutare caso per caso, ma non per questo priva di rilevanza.

In linea generale, il lavoratore ha diritto a pretendere dal datore di lavoro tutte le misure che “secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale” (art. 2087 del codice civile).

Quali sono queste misure, in concreto? La maggior parte sono prescritte in modo analitico nel Testo Unico in materia di tutela della salute e della sicurezza. Quelle più rilevanti in tema di coronavirus sono contenute nel Titolo X del Testo Unico, dedicato alla “Esposizione ad agenti biologici“, che possono ritenersi almeno in parte applicabili anche alla situazione attuale: si tratta di obblighi relativi all’adozione di dispositivi di protezione individuale, di organizzazione dei processi produttivi tali da ridurre al minimo i rischi, di sanificazione, etc..

Il Ministero della Salute, poi, ha diramato lo scorso febbraio, proprio all’inizio della crisi, una circolare che precisa ulteriormente, tra l’altro, gli obblighi in tema di pulizia e sanificazione degli ambienti e degli strumenti di lavoro.

Il singolo lavoratore, in presenza di violazioni palesi (ossia immediatamente individuabili) delle prescrizioni in materia di sicurezza, può pretenderne il rispetto con una diffida formale, e in caso di rifiuto di adempiere può perfino validamente rifiutarsi di lavorare: è chiaro che è decisamente opportuno, prima di prendere questo tipo di iniziative, consultare un legale o meglio ancora pretendere la “copertura” del sindacato e, dove si può, agire collettivamente.

Naturalmente nella stragrande maggioranza dei casi questo non sarà possibile, in concreto. Non ho trovato da nessuna parte dei dati, e immagino che non se ne troveranno mai, ma credo proprio che saranno in molti ad ammalarsi sul posto di lavoro, a causa di misure di sicurezza approssimative o del tutto inesistenti. A chi dovesse capitare, rimarrà quantomeno la possibilità di chiedere al datore di lavoro un risarcimento del danno causato proprio dall’inosservanza delle misure di tutela della salute. In presenza di una correlazione tra contagio e prestazione lavorativa, sarà il datore di lavoro, in questo caso, a dover dimostrare di aver fatto tutto il possibile per ridurre al minimo i rischi.

Molto purtroppo, finché durerà questo sistema fondato sullo sfruttamento, resterà comunque impunito: speriamo non tutto.

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