Tra le pochissime “cose buone” capitate nel diritto del lavoro negli ultimi vent’anni, due in particolare hanno portato vantaggi concreti ai lavoratori.
La prima è l’affermazione del principio per cui la prescrizione quinquennale dei crediti dei lavoratori, dipendenti di imprese con più di 15 dipendenti, non decorre nel corso del rapporto di lavoro: questo permette a tutti i lavoratori che siano stati pagati meno del dovuto di ottenere tutte le somme loro spettanti maturate nel corso del rapporto, e non solo quelle maturate nei cinque anni precedenti alla domanda.
Lo ha stabilito una volta per tutte (sembrava) la Corte di Cassazione nel settembre del 2022, basandosi sul presupposto che, cancellato con la riforma Fornero il diritto alla reintegrazione un tempo stabilito dall’Articolo 18 per tutti i casi di licenziamento illegittimo, il lavoratore potesse legittimamente voler evitare di fare causa al proprio datore di lavoro in costanza di rapporto, per evitare di essere preso di mira e subire magari un licenziamento che, quand’anche dichiarato illegittimo, non necessariamente gli avrebbe consentito di ottenere la reintegrazione nel posto di lavoro.
La seconda, più recente, riguarda l’individuazione del “minimo costituzionale” di retribuzione, sotto il quale non è consentito scendere neppure quando a farlo sono i contratti collettivi stipulati dalle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative: un principio che ha trovato concreta applicazione nell’ampio contenzioso relativo alla retribuzione dei lavoratori dei Servizi fiduciari, che oltre a stimolare a più riprese l’intervento della Procura della Repubblica di Milano, ha sostanzialmente obbligato le imprese del settore (e i sindacati confederali) ad aumentare gli stipendi ben oltre le intenzioni iniziali.
Ma questa maggioranza di governo, forse perfino più di quelle che l’hanno preceduta, è come un abile borseggiatore: ti distrai un secondo sul tram e ti sfila dal taschino il portafoglio la retribuzione sufficiente e proporzionata e il diritto di rivendicarla.
Lo fa quatto quatto, come da tradizione, con un oscuro emendamento al disegno di conversione di un decreto legge relativo al “sostegno ai comparti produttivi” (il “decreto ILVA” dello scorso 26 giugno, da convertire entro metà agosto: come sempre queste riforme si fanno d’estate), presentato alla Commissione per l’Industria commercio, turismo, agricoltura e produzione agroalimentare del Senato.
Il testo dell’emendamento è una tragedia in quattro commi:
- con il primo comma si prevede di ripristinare per via di legge quello che la Corte di Cassazione aveva escluso: ossia la decorrenza del termine quinquennale di prescrizione dei diritti dei lavoratori in costanza di rapporto di lavoro;
- con il secondo comma si impone una seconda tagliola, ancora più onerosa: non basta più interrompere la prescrizione con una lettera, ma occorre poi nei sei mesi successivi depositare il ricorso, a pena di decadenza dal diritto;
- con il terzo comma si stabilisce che la retribuzione conforme ai minimi previsti dai contratti collettivi stipulati dalle organizzazioni maggiormente rappresentative si presume proporzionata e sufficiente, salvo che non ne venga accertata la grave inadeguatezza “rispetto ai livelli di produttività del lavoro e degli indici del costo della vita” ISTAT;
- infine con il quarto comma si prevede che, nel caso a questo punto remoto che un giudice dovesse accertare la “grave inadeguatezza” della retribuzione erogata, il lavoratore non potrà ottenere le differenze retributive maturate prima dell’invio della lettera con cui interrompe la prescrizione.
Con pochi tratti di penna, si vorrebbero cancellate in un colpo solo le due principali “conquiste” ottenute dai lavoratori (entrambe, non a caso, per via giudiziale) negli ultimi anni.
Da un lato, in linea generale e in tutti i casi, si punta a ristabilire un limite assai stretto alle rivendicazioni che il lavoratore può avanzare nei confronti del suo datore inadempiente. Costringere i dipendenti a fare causa al proprio datore di lavoro in costanza di rapporto significa in buona sostanza, nella stragrande maggioranza dei casi, scoraggiarli e impedire che le domande vengano effettuate. Esattamente il contrario di quello che aveva accertato la Corte di Cassazione nel 2022, quando aveva invece affermato precisamente che “[…] deve essere escluso, per la mancanza di predeterminazione certa delle fattispecie di risoluzione e soprattutto di una loro tutela adeguata, che il rapporto di lavoro a tempo indeterminato, così come modulato per effetto della legge n. 92 del 2012 [ossia la riforma Fornero] e del decreto legislativo n. 23 del 2015 [ossia il Jobs Act], sia assistito da un regime di stabilità“.
Ancora più clamorosa sarebbe la limitazione nel caso in cui queste rivendicazioni riguardassero retribuzioni di cui il giudice abbia già accertato “la grave inadeguatezza” rispetto ai minimi costituzionali di sufficienza e proporzionalità: in questo caso infatti non potrebbero essere richieste neppure le differenze maturate nei cinque anni precedenti al momento in cui si interrompe la prescrizione, ma solo quelle successive! Un vero colpo di spugna a un gran numero di cause, alcune ancora in corso, con cui migliaia di lavoratori hanno potuto (o avranno la possibilità) di ottenere un risarcimento – sotto forma di arretrati – per anni di retribuzioni considerate ormai da tempo certamente insufficienti a garantire loro un’esistenza libera e dignitosa.
Va detto subito che questo emendamento è così sfacciatamente contrario alle basi stesse del diritto che difficilmente verrà approvato, quantomeno in questa formulazione. Infatti entrambi i diritti che esplicitamente intende cancellare sono fondati direttamente su principi di rango costituzionale che non possono ragionevolmente essere aggirati con una legge qualunque. In questo caso, la giurisprudenza è destinata a prevalere sulla politica. E meno male! Ché, se aspettiamo la politica, stiamo freschi.
Ciò premesso, è davvero inquietante anche solo il tentativo di far passare una norma come questa. Non perché ci si potesse aspettare un qualche rispetto formale dei principi di diritto, ma semplicemente perché è l’avvisaglia che qualcosa faranno – magari meno sfrontato e più presentabile – alla prossima occasione.
Intanto, è interessante prendere nota del promotore dell’emendamento, che è anche il relatore del disegno di legge: si tratta dell’onorevole Salvo Pogliese, di professione consulente (per le aziende) del lavoro, già sindaco di Catania fino alla sua sospensione dalla carica per via di una condanna in primo grado a quattro anni e sei mesi di reclusione (poi ridotti a due anni e tre mesi) per peculato quando era deputato all’Assemblea Regionale Siciliana, e forse per questo premiato da Fratelli d’Italia con un seggio al Senato della Repubblica.
Notevole anche che queste norme vengano inserite in un disegno di legge relativo al “sostegno ai comparti produttivi”: in pratica – si suggerisce – sosteniamo i comparti produttivi consentendo alle aziende di non pagare gli stipendi. In effetti non c’è neppure molto di cui sorprendersi.
A ogni buon conto, come già avvenuto in passato con il Collegato Lavoro, anche la sola minaccia di introdurre tagliole, prescrizioni e decadenze dovrà diventare lo sprone per una campagna di mobilitazione al grido di “Ora o mai più!”: potrebbe magari essere l’occasione, anche per la CGIL, di tornare in pista dopo il flop dei referendum.