Paura e prescrizione (al lavoro)

I lavoratori dovranno avere paura…” – Della Meloni! – diranno subito i miei piccoli lettori. No ragazzi, avete sbagliato. Questo post non riguarda in effetti, se non indirettamente, l’analisi del voto.

I lavoratori dovranno avere paura dei propri datori di lavoro”: in estrema sintesi, questo secondo la Corte di Cassazione è il contenuto di tutte le leggi che hanno modificato le sanzioni per il licenziamento illegittimo a partire dalla riforma Fornero del 2012 per proseguire con il Jobs Act del PD del 2015.

La decisione di inizio settembre riguarda la decorrenza della prescrizione dei crediti di lavoro (nelle imprese con più di 15 dipendenti). Dietro il linguaggio “tecnico” e forse un po’ oscuro del diritto si nasconde una questione di grande importanza pratica per migliaia e migliaia di lavoratori, ossia la seguente: quanto tempo ho per chiedere al mio datore di lavoro soldi che non mi ha pagato (stipendi arretrati, straordinari non riconosciuti, differenze di retribuzione perché ho svolto mansioni superiori, etc.)? Più precisamente, da quando partono i cinque anni di tempo previsti dalla legge per chiedere al datore di lavoro soldi che non ha pagato?

Occorre sapere che, secondo la regola generale, i termini di prescrizione partono dal momento in cui un diritto può essere fatto valere. Dunque, in teoria, se da settembre 2017 vengo pagato con uno stipendio da sesto livello anche se in realtà faccio un lavoro da quarto livello, per chiedere la differenza tra la paga del sesto e quella del quarto, per tutto il tempo in cui ho svolto mansioni superiori, ho tempo soltanto fino a settembre 2022: ogni mese che passa senza che io abbia chiesto al datore di lavoro di pagarmi (senza che io abbia “interrotto la prescrizione”) perderò un mese di differenze.

Chiaramente, soprattutto se lavoro in un’azienda piccola o molto piccola, so che se “rompo le scatole” potrei finire per perdere il lavoro, e questo potrebbe spingermi a rinunciare a quei soldi – pochi o tanti che siano. Questo timore è un concetto noto nel diritto con il suo nome latino: metus.

Ecco perché fin alla fine degli anni Sessanta, prima dell’introduzione dell’Articolo 18, la giurisprudenza aveva stabilito che la prescrizione dei crediti di lavoro decorre soltanto dalla cessazione del rapporto e non durante il suo svolgimento: i cinque anni di tempo partono da quando non devo più temere di perdere il lavoro se faccio valere il mio diritto.

La questione è cambiata proprio con l’Articolo 18 (legge 300 del 1970): grazie al fatto che – nelle imprese con più di 15 dipendenti – in tutti i casi di licenziamento illegittimo era previsto il diritto alla reintegrazione, la Corte Costituzionale prima e la Cassazione poi avevano stabilito che per questi lavoratori non valesse il principio del metus, perché i loro rapporti di lavoro erano assistiti da una sufficiente stabilità. In altre parole, siccome so che se mi licenzi senza valido motivo verrò comunque reintegrato, non ho motivo di temere (almeno questo tipo di) ritorsione se ti chiedo i soldi che penso mi spettino. Per i lavoratori tutelati dall’Articolo 18, dunque, valeva la regola generale che i cinque anni da quando il diritto fosse sorto decorrevano anche nel corso del rapporto di lavoro.

Per quasi quarant’anni la questione è stata considerata sostanzialmente risolta, con questo “doppio regime” di prescrizione in corso di rapporto o dalla sua cessazione a seconda che il rapporto di lavoro fosse o meno assistito da “stabilità reale”.

Finché la riforma Fornero del luglio 2012 e il Jobs Act del marzo 2015 hanno cambiato nuovamente le carte in tavola. Come ricorderete, la prima aveva modificato l’Articolo 18 riducendo la reintegrazione a una tutela residuale, soltanto per i casi più gravi di licenziamento illegittimo, prevedendo per gli altri soltanto un risarcimento economico. Il secondo l’Articolo 18 lo aveva direttamente abolito per i rapporti di lavoro sorti dal marzo 2015, riducendo ulteriormente il campo della reintegrazione, a favore del risarcimento.

Perciò la questione della decorrenza della prescrizione in corso di rapporto è tornata a porsi: ora che la reintegrazione nel posto di lavoro non è più la forma generale di tutela in caso di licenziamento illegittimo, si può ancora dire che i dipendenti delle imprese con più di 15 dipendenti non possano temere di perdere il posto se fanno valere i propri diritti nel corso del rapporto di lavoro?

Dopo un periodo iniziale di incertezza, la maggior parte dei Tribunali e delle Corti d’Appello hanno cominciato a orientarsi verso la risposta negativa. Finalmente anche la Corte di Cassazione prende posizione sulla questione, e lo fa confermando questo orientamento:

“[…] deve essere escluso, per la mancanza di predeterminazione certa delle fattispecie di risoluzione e soprattutto di una loro tutela adeguata, che il rapporto di lavoro a tempo indeterminato, così come modulato per effetto della legge n. 92 del 2012 e del decreto legislativo n. 23 del 2015, sia assistito da un regime di stabilità. Da ciò consegue […] la decorrenza originaria del termine di prescrizione dalla cessazione del rapporto di lavoro per tutti quei diritti che non siano prescritti al momento di entrata in vigore della legge n. 92 del 2012.

L’importanza pratica di questa pronuncia è notevole. Se ho iniziato a lavorare (in un’azienda con più di 15 dipendenti) nel 2008 e ho smesso nel 2022, e fin dall’inizio sono stato pagato meno del dovuto ma non ho mai detto nulla per “quieto vivere”, grazie al nuovo principio posso chiedere tutti i soldi che mi spettano fin dal 2008; altrimenti potrei tornare indietro soltanto fino al 2017.

Altrettanto notevole è il valore politico del principio. Quello che si afferma senza mezzi termini è che la vera finalità della riforma Fornero (e a maggior ragione del Jobs Act), nel distruggere l’Articolo 18, fu quella di instillare nei lavoratori la paura di far valere i propri diritti.

Una postilla. È senz’altro giusto aspettarsi dal governo della destra nuovi attacchi ai diritti dei lavoratori – oltre che ai diritti delle donne, degli immigrati. Per comprendere i motivi del loro successo, è necessario però ricordare che a votare la riforma Fornero furono non solo il Popolo della Libertà di Berlusconi (con la giovane deputata Giorgia Meloni), ma anche il Partito Democratico che poco più di due anni dopo avrebbe varato il Jobs Act. Nessuna sorpresa che in così tanti abbiano scelto di non votare, piuttosto che farsi rappresentare da loro.

I lavoratori, a cui è stata imposta per legge la paura dei propri datori, non dovranno invece avere paura del prossimo governo, ma dovranno combatterlo nei posti di lavoro e nelle piazze.

Condividete se vi piace!

Leave a Reply

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.