Freaks Out – Arrivano i nostri

Leggo che Freaks Out, il nuovo film di Gabriele Mainetti, non ha sfondato al botteghino. Scusami Gabriele, avrei dovuto scriverla prima questa recensione.

Il film ormai è uscito da quasi un mese, per cui la storia probabilmente la sapete già. Uno scalcagnato gruppo di artisti di strada con bizzarri “poteri” – Cencio che comanda gli insetti, Mario il nano magnetico, Fulvio il bestiale gigante forzuto e Matilde, una ragazzina capace di produrre elettricità – giungono a Roma alla ricerca del loro mentore, il capocomico Israel. Il problema è che siamo nell’autunno del 1943: Roma è la “città aperta” occupata dai nazisti e Israel, naturalmente, è ebreo. Nel corso della loro quête, i protagonisti si scontreranno con il nazista Franz, mattatore del Zirkus Berlin, a sua volta dotato di capacità speciali: sei dita per mano che lo rendono un pianista impareggiabile e il dono una confusa e mal creduta preveggenza – “sono la Cassandra del Terzo Reich”.

Signore e signori, benvenuti al Circo Mezzapiotta, dove l’immaginazione diventa realtà.

Nell’immaginazione di Gabriele Mainetti c’è un po’ di tutto. Il divertimento un po’ truce dei supereroi con l’accento romanesco che paiono un incrocio tra gli Avengers e Nico Giraldi (ce n’eravamo accorti già con Lo chiamavano Jeeg Robot), il rispetto per la storia del grande cinema italiano di Fellini e Rossellini, il senso per il meraviglioso e il fiabesco a metà strada tra Spielberg e Garrone, ma anche il gusto per la violenza (non) gratuita di Quentin Tarantino.

Da questo miscuglio poteva venir fuori un pasticcio, e in effetti i detrattori del film gli rimproverano soprattutto una scarsa “precisione”: a livello di trama, magari non è lineare in qualche passaggio; a livello storiografico, la ricostruzione della Roma occupata dai nazisti è iper-semplificata (soprattutto tra i compagni ho sentito lamentare il fatto che nel film non siano mai menzionati i fascisti – ma siamo pur sempre a Roma dopo l’armistizio e dopo la fine del regime: la critica mi pare poco centrata); a livello di ritmo, forse c’è un po’ di sproporzione fra la lunghissima resa dei conti finale e la sua preparazione un po’ affrettata.

Ammesso che questi siano davvero difetti, e non il portato di un racconto che procede dichiaratamente come una fiaba, il film mantiene invece una sua coerenza riconoscibile e i pregi sono molto superiori. Mainetti è riuscito a trasfondere la sua passione per tutto il cinema in una storia che coinvolge non solo per la straordinaria bellezza delle immagini, il talento clamoroso della regia e la bravura degli attori – su tutti Matilde/Aurora Giovinazzo, che non sembra davvero un’esordiente – ma soprattutto per la capacità di veicolare significati non scontati in un prodotto che, per scelta, rimane pur sempre main stream.

L’idea forte che la storia trasmette è quella che schierarsi non è un atto semplice neppure quando il bene e il male sono così riconoscibili da essere quasi stereotipati. L’appiattimento dei nazisti a “cattivi da cartone animato”, che pure è stato criticato da qualcuno, è funzionale (magari involontariamente) a questo concetto.

All’Uomo Ragno è bastato sentire che da un grande potere derivano grandi responsabilità per decidere di usare i suoi poteri a fin di bene. I nostri eroi invece, persa inizialmente la speranza di rivedere Israel (anzi, con il sospetto che l’ebreo li avesse fregati) scelgono addirittura di arruolarsi nel circo nazista. Tranne Matilde, che comunque fino alla resa dei conti finale sceglie di non usare i propri poteri contro i tedeschi.

Il che porta a un secondo tema importante: la violenza non è tutta uguale. C’è la violenza degli oppressori, quella dei nazisti che rastrellano gli ebrei per deportarli in Germania e uccidono un disabile per divertimento, in una scena ripresa pari pari da Roma città aperta; quella di Franz che tortura i freak per verificarne i poteri. La rappresentazione di questa violenza è cruda come quella dei nazisti e degli schiavisti nei film di Quentin Tarantino.

Ma altrettanto cruda è la rappresentazione della violenza degli oppressi: quella dei partigiani scalcagnati guidati dal Gobbo e quella degli stessi protagonisti nella lunga battaglia finale – la sequenza nel treno in cui i tedeschi muoiono infilzati dalle loro stesse posate, punti da sciami di vespe inferocite, con la testa spiaccicata dalle manone di Fulvio, è degna del Django di Tarantino, e di Tarantino riprende proprio il concetto che la violenza degli oppressi contro gli oppressori non è solo giustificabile: è giusta. Per finire con Matilde, che letteralmente annichilisce tutti i nemici rimasti sul campo.

La ricompensa per i protagonisti è la realizzazione di se stessi: le capacità che li rendevano nient’altro che fenomeni da baraccone all’inizio della storia diventano finalmente poteri veri e propri nel momento in cui vengono utilizzate a beneficio degli oppressi come armi contro gli oppressori. Da freak diventano esseri umani, prima ancora che supereroi.

Esattamente il contrario di quel che accade a Franz che, con una scelta speculare a quella dei protagonisti, sceglie di rinunciare alla propria diversità – la scena dell’automutilazione è brutalmente efficace! – ma così facendo perde definitivamente se stesso e la propria residua umanità.

Per quanto mi riguarda, il progetto ambizioso di Gabriele Mainetti è davvero riuscito, al netto di qualche imperfezione. Per rimediare al botteghino probabilmente è tardi, ma finché è ancora nelle sale non perdetevelo.

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