Scommettiamo che il virus…

Confesso che questa faccenda dell’isolamento comincia a pesarmi. In due delle ultime tre notti ha invaso anche i miei sogni, (s)popolati di quarantene, negozi chiusi, strade deserte. Mi difendo come posso, come tutti, anche cercando di conservare alcune routine. Tra queste, la lettura mattutina della Gazzetta dello Sport, mentre faccio colazione. Tranquilli, non esco per comprarla, e tranquilli, non la “scarico” illegalmente: il sistema bibliotecario di Milano (e probabilmente quello di molte altre città) consente l’accesso gratuito a una vasta emeroteca digitale.

Oggi, dopo un’interessante analisi dei bilanci delle squadre di Serie A, quasi tutti in pesante passivo, compare un doppio paginone intitolato Ripartenza possibile senza quel Decreto. A quale decreto si riferisce? Al “Decreto Dignità”, che nell’estate del 2018 ha parzialmente e gradualmente vietato la pubblicità delle scommesse sportive. All’epoca ne scrissi qui, evidenziando anche i limiti del provvedimento.

Campeggiano nel paginone due grandi numeri: 9,1 miliardi, cioè la somma delle giocate sul calcio in Italia nel 2018, che rappresentavano il 70% del totale delle scommesse sportive, e 200,8 milioni, ossia le presunte ricadute economiche sul mondo del calcio suddivisi tra editoria di quotidiani e periodici (40,8 milioni), sistema audiovisivo (60 milioni) e introiti diretti alle società (100 milioni). Più in piccolo, è indicato in 211 milioni il gettito fiscale corrispondente ai 9,1 miliardi di giocate.

L’articolo riporta la richiesta che “il calcio” – in un primo passaggio è citata la FIGC, poi la Lega di Serie A – vorrebbe indirizzare al governo per risollevare il sistema minacciato dalle conseguenze dell’epidemia: rimuovere il divieto di pubblicità e sponsorizzazioni per le società che gestiscono scommesse. I numeri del paginone derivano da una “segnalazione” dell’Autorità garante per le comunicazioni secondo cui “solo” uno scommettitore su cinque arriverebbe al gioco attraverso la pubblicità. Non vengono invece resi noti i dati sul totale delle giocate nel 2019 – può darsi non siano ancora disponibili – mentre ci si limita ad affermare che le cifre del 2018 – i famosi 9,1 miliardi di giocate – “non saranno neanche minimamente avvicinate nel 2020” a causa dello stop forzato e prolungato a tutti gli eventi sportivi. Da qui la proposta del “calcio” di rimuovere il divieto, per “ricreare un mercato” e dare respiro ai bilanci sia delle squadre che dei padroni delle scommesse, oltre che a giornali e televisioni.

Fin qui, comunque, la notizia. Nelle due colonne di destra del paginone, invece figura l’opinione della testata, per bocca di una delle sue voci più autorevoli, quella di Franco Arturi. L’articolo è intitolato La scommessa sportiva è sfida non azzardo e richiama le argomentazioni già utilizzate dallo stesso Arturi diversi anni fa in un altro editoriale che avevo commentato qui.

Secondo l’opinionista della rosea, il divieto della pubblicità dei gestori di scommesse “fa parte in pieno della demagogia“, perché “la ludopatia non si combatte in questo modo“. Lo dimostrerebbe il fatto che non sono proibite le pubblicità degli alcoolici, nonostante il problema dell’etilismo, e che “i paraventi contro la pornografia sono trasparenti” nonostante l’esistenza della dipendenza dal sesso.

Insomma, siccome non è sufficientemente contrastata la pornografia, allora non è giusto vietare la pubblicità delle scommesse: pur sforzandomi, non riesco a trovare un esempio più buffo di “benaltrismo”.

Va detto che c’è un passaggio in cui Arturi coglie il vero nodo della questione, pur senza trarne le conseguenze necessarie. Spiega infatti: “Non è una scommessa puntare su chi e a che minuto otterrà il primo corner, ma azzardo. E va tolta di mezzo questa possibilità. Ma se punto 10 euro sul risultato di Juve-Inter non commetto crimini né qualcuno può guardami con sospetto.

Ora, io su questo sono anche in parte d’accordo. Il problema è che se, oggi, io vado ad esempio sulla pagina delle scommesse sportive sul sito di SportPesa (ex sponsor del Torino, squadra di proprietà dell’editore della Gazzetta Urbano Cairo, tanto per introdurre di passaggio anche il tema del conflitto d’interessi) la prima cosa che trovo è la possibilità di scommettere sui risultati di alcune amichevoli tra squadre (credo) islandesi e di alcune partite dei campionati di Burundi e Bielorussia. E questo non dipende dal fatto che in questi giorni non giochi la Serie A, perché lo stesso tipo di scommesse si trova da sempre sulle homepage di tutti i principali siti.

È così perché a dirigere le scelte delle imprese private che fanno delle scommesse liberalizzate la loro fonte di profitto non è la salvaguardia della “cultura della scommessa” ma, per l’appunto, la massimizzazione del profitto. Sarebbe interessante conoscere i numeri precisi di questo tipo di giocate, ma sono fortemente convinto che le imprese del betting rinuncerebbero ancora meno volentieri alle puntate sui calci d’angolo o sui risultati della serie B congolese che alla pubblicità sulle maglie delle squadre perché è quel genere di scommesse quello dei giocatori compulsivi, ossia quelli che, giocando di più e più spesso, assicurano i profitti maggiori. Infatti, l’abolizione di questo tipo di scommesse, che Arturi chiama spregiativamente azzardo, non è neppure sul tavolo in realtà.

Il punto fondamentale rimane lo stesso denunciato più volte. Finché a dirigere il gioco è il profitto privato, in questo sistema non è pensabile una lotta davvero efficace contro la dipendenza dall’azzardo. Inoltre, finché lo Stato continua a finanziarsi grazie al gioco liberalizzato, non è credibile che si impegni davvero a combatterne la diffusione patologica: ha ragione Arturi a denunciarne l’ipocrisia. Così come è vero – e in effetti è una diretta conseguenza dello scarso interesse per la questione – che “chi è condotto a rovinarsi dalla sua malattia, continua a farlo online, su mille canali ancora apertissimi“. Ma questo non significa che il divieto di pubblicizzare le scommesse, benché insufficiente, sia uno strumento inutile: infatti apprendiamo dall’articolo citato prima che poco meno del 20% dei giocatori si avvicinano alle scommesse tramite la pubblicità. Quanti tra questi, senza il divieto, avrebbero potuto sviluppare una dipendenza?

Che usino l’argomento dell’epidemia per spingere il governo a rimuovere l’unica, benché insufficiente misura finora in campo contro l’azzardo patologico, è solo l’ennesima dimostrazione di quanto l’interesse per il profitto sia incompatibile con quello per il benessere delle persone.

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