La timida lotta all’azzardo

Questa settimana comincia in Parlamento l’esame del Decreto Dignità, che dovrà essere convertito in legge entro la metà di settembre pena la sua inefficacia. Della parte riguardante le scarse (e in via di ulteriore ridimensionamento) misure contro la precarietà, ho scritto qui.

Altrettanta enfasi è stata data alle misure contenute nel decreto di contrasto alla ludopatia, in particolare con l’introduzione del divieto di pubblicizzazione dell’azzardo. Ho affrontato la questione sul blog dei compagni del Collettivo Senza Slot, che mi hanno offerto ospitalità. Il Fatto Quotidiano ha pubblicato il pezzo costringendoci a tagli consistenti e con un titolo che – a giudicare dai commenti – mi pare piuttosto fuorviante. Lo ripubblico qui in versione integrale, con un piccolo aggiornamento riguardante le coperture finanziarie annunciate pochi giorni dopo la prima stesura.

Decreto Dignità: la timida lotta all’azzardo

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Questo messaggio un po’ inquietante, a metà strada tra Fight Club e Grande Fratello, compare ossessivamente negli intervalli pubblicitari all’interno delle trasmissioni sportive, per reclamizzare una nota impresa dell’azzardo. La frase fotografa perfettamente, certamente al di là delle intenzioni dei pubblicitari che l’hanno concepita, l’influenza omnipervasiva del mondo dell’azzardo liberalizzato nello sport in generale e nel calcio in particolare.

Circa un anno fa, squalificato dalla Football Association inglese per aver violato la regola che vieta ai professionisti di scommettere su eventi calcistici, l’ormai ex calciatore Joey Barton aveva denunciato il fenomeno in termini del tutto analoghi, sia pure con connotazione fortemente critica: “c’è una colossale contraddizione fra queste regole e la cultura che circonda oggi il gioco, una cultura in cui chiunque guardi il calcio in televisione o negli stadi è bombardato da marketing, pubblicità e sponsorizzazioni di imprese dell’azzardo, e in cui gran parte della copertura televisiva è inestricabilmente legata agli interessi nel mondo delle scommesse delle stesse emittenti … Se la Federazione intende seriamente porre un freno alle scommesse, le raccomanderei di cominciare a riconsiderare la propria dipendenza dall’industria dell’azzardo.

La situazione è molto simile anche in Italia. Metà delle squadre della massima serie calcistica vanta generosi contratti commerciali con i cosiddetti official betting partners che riversano direttamente nelle casse delle società cifre che oscillano fra 500mila e 1 milione di Euro per ciascun accordo (fonte: Gazzetta dello Sport 29.6.2018). Ma è soprattutto indirettamente che l’industria dell’azzardo finanzia il mondo del calcio, attraverso la raccolta pubblicitaria che costituisce una delle principali ragioni di appetibilità dei diritti televisivi. Lo scorso giugno i diritti per la trasmissione delle partite di Serie A per il triennio 2018-2021 sono stati acquistati per circa un miliardo di Euro: non sono reperibili al momento dati ufficiali che quantifichino l’incidenza delle pubblicità del betting su questa somma, ma a quanto pare la Lega di Serie A li sta preparando allo scopo di dimostrare quanto siano indispensabili alla sopravvivenza del “sistema calcio”.

D’altra parte il Report Calcio 2018 elaborato dalla Figc stima che nel solo 2017 il valore delle scommesse su eventi calcistici sia stato superiore agli 8 miliardi di Euro (in crescita del 25% rispetto all’anno precedente e quasi raddoppiato rispetto al 2015): una torta colossale che spiega perfettamente il coro di reazioni rabbiose di operatori dell’azzardo, istituzioni e società calcistiche nei confronti del “divieto di pubblicità di giochi e scommesse” contenuto nel “Decreto Dignità” firmato dal ministro Luigi Di Maio e recentemente approvato dal governo.

La norma prevede il divieto, dalla data di entrata in vigore del decreto, “di qualsiasi forma di pubblicità, anche indiretta, relativa a giochi e scommesse con vincite di denaro, comunque effettuata e su qualunque mezzo. […] Dal 1° gennaio 2019 il divieto di cui al presente comma si applica anche alle sponsorizzazioni di eventi, attività, manifestazioni programmi, prodotti o servizi e a tutte le altre forme di comunicazione di contenuto promozionale.” Il divieto tuttavia non si applica ai contratti di pubblicità in corso, che proseguiranno fino alla loro scadenza.

Il divieto della pubblicità è da sempre una rivendicazione del movimento contro l’azzardo liberalizzato. Rispetto ad altri tipi di dipendenza, quella dall’azzardo ha nella promozione la principale fonte di reclutamento: è proprio per la sua efficacia che la pubblicità di “giochi” e scommesse in tutte le sue forme (TV, giornali, internet, cartellonistica, etc.) è tanto martellante e pervasiva. Vietarla è quindi un primo passo necessario: la misura prevista nel Decreto Dignità perciò non può che essere salutata positivamente.

Questo non deve però impedire di evidenziare i limiti di un provvedimento che peraltro, mentre scriviamo, ancora non è neppure stato controfirmato dal Presidente della Repubblica [la firma è arrivata il 14 luglio]: visti i recenti precedenti di Mattarella con il governo gialloverde, non ci sentiremmo francamente di mettere la mano sul fuoco che non si troverà qualche cavillo formale per soffocare il decreto già nella culla. La stessa formulazione della norma, che esclude dal suo campo di applicazione i contratti in corso e rinvia al 2019 parte dei divieti, pare poco coerente con le ragioni di urgenza che dovrebbero caratterizzare il decreto-legge, mettendone a repentaglio la costituzionalità: come spesso avviene, sono proprio gli elementi di maggior debolezza del provvedimento quelli che potrebbero affossarlo del tutto fin da subito.

Una volta superato il primo scoglio del Quirinale, il decreto dovrà poi affrontare il dibattito parlamentare, dal momento che dovrà essere convertito in legge entro sessanta giorni, pena la sua inefficacia. Questa fase non è ancora iniziata ma già le lobby dell’azzardo stanno mobilitando i loro alfieri nei media per attaccare più o meno subdolamente il provvedimento: se neppure i lettori de Il Giornale sembrano convinti dalle grossolane argomentazioni di Nicola Porro (stando ai commenti all’articolo), fa un certo effetto la chiamata alle armi dalle colonne de La Gazzetta dello Sport dei “22 milioni di tifosi di calcio” che dovrebbero preoccuparsi per le sorti delle loro squadre private dei proventi delle scommesse. Non è detto che questo appello non si trasformi in un autogol: se il fronte delle lobby cerca una sponda nel timore dei tifosi che le formazioni italiane divengano meno competitive rispetto a quelle straniere, il movimento contro l’azzardo liberalizzato dovrebbe cercare di saldarsi con quel settore crescente di sportivi che guardano con preoccupazione agli effetti della privatizzazione e della finanziarizzazione del calcio professionistico: dai fallimenti in sequenza anche di squadre importanti, al costante rincaro dei biglietti (destinati ad aumentare esponenzialmente negli stadi di proprietà delle società calcistiche), al commercio più o meno fraudolento delle plusvalenze, agli scandali del calcio-scommesse.

La campagna è destinata ad aumentare di intensità nelle prossime settimane, quando si giocherà in Parlamento la partita per cancellare o almeno per sterilizzare il decreto attraverso gli emendamenti. Come da copione, uno dei principali argomenti messi in campo dalle lobby e dai loro prezzolati sostenitori è quello del gettito fiscale garantito allo Stato italiano. Questo argomento non vale in realtà per le scommesse sportive (e questo va rimarcato): in questo settore è applicata dal 2016 un’aliquota media del 20% al solo margine lordo, ossia alla differenza tra raccolta e vincite; nel 2017, a fronte di una raccolta complessiva di oltre 8 miliardi di Euro dalle sole scommesse sul calcio, secondo il già citato rapporto della Figc l’erario ha incassato meno di 200 milioni. Ma complessivamente (tra giochi tradizionali, scommesse e soprattutto “giochi di nuova generazione”) il prelievo tributario sull’azzardo ha ormai quasi raggiunto i 10 miliardi di Euro all’anno: una vera e propria dipendenza per le casse dello Stato.

Noi sosteniamo che lo Stato dovrebbe trovare altrove le risorse per funzionare (e per funzionare meglio!) e non certo da un’industria che non produce nulla se non conseguenze sociali devastanti. Ma ecco che l’efficacia del decreto, ossia la convinzione con cui il governo pensa di difenderlo dagli emendamenti prima e di applicarlo poi, si potrà misurare oggettivamente dalle coperture finanziarie che saranno previste per il minor gettito conseguente al divieto di pubblicità. Dovessero spacciarlo per un provvedimento a costo zero o quasi, sapremo già che la sua efficacia sarà nulla.

Il movimento contro l’azzardo liberalizzato, che con il consenso di massa ottenuto in questi anni ha il merito per quanto di buono è attualmente previsto nel Decreto Dignità, non può certamente delegare questa battaglia a un governo che si è già dimostrato su altri terreni forte con i deboli e debole con i forti. Sarà necessario fin dalle prossime settimane difendere gli elementi progressisti del provvedimento, pretendendone l’applicazione rigorosa e rivendicando ulteriori misure ben più radicali ed efficaci.

P.S. Nella versione definitiva del decreto pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale, gli oneri per lo Stato sono quantificati in circa 150 milioni per il 2019 e circa 200 milioni nel 2020: possiamo già ipotizzare, fondatamente, che questo governo non ha in realtà alcuna intenzione di combattere seriamente la ludopatia, e questo ancora prima che gli emendamenti possano ulteriormente annacquare il provvedimento.

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