“Cura Italia”, palliativo per i lavoratori

Dopo giorni di convulsa gestazione, finalmente mercoledì è stato pubblicato il decreto-legge n. 18/2020, noto come “Cura Italia”: qui trovate il testo completo.

È un provvedimento molto lungo che contiene misure eterogenee: io mi concentrerò sulle “misure a sostegno del lavoro” e in generale sulle norme che in qualche modo incidono sulle condizioni di lavoro.

Fondamentalmente le linee di intervento principali sono due: da un lato – come annunciato già da settimane – si estende a tutte le imprese la possibilità di ricorrere alla Cassa Integrazione, strumento che tutela i lavoratori dipendenti; dall’altro, per autonomi e precari, sono previste erogazioni una tantum di 600 Euro per il mese di marzo, a determinate condizioni. Sulla carta, si tratta senz’altro di misure utili; a guardar bene, però, le magagne non mancano.

Cassa Integrazione per tutti, ma chi decide?

Lo Stato stanzia circa 5 miliardi di Euro per consentire alle imprese che decidono di chiudere o ridurre l’attività di chiedere la Cassa Integrazione per una durata di nove settimane: nell’attuale ordinamento, questo è senz’altro lo strumento più indicato per garantire ai lavoratori dipendenti di mantenere almeno parte del proprio reddito (l’80% della retribuzione, ma con un massimo di circa 1.300,00 Euro mensili). In via straordinaria, la Cassa può essere richiesta dalle aziende direttamente alle Regioni competenti, senza necessità di un preventivo accordo sindacale.

Qui sta la prima gabola. In mancanza di accordo preventivo, il datore di lavoro può fare un po’ quello che gli pare: ad esempio decidere di mettere in Cassa solo alcuni dipendenti e continuare a far lavorare gli altri, senza attuare alcuna rotazione.

Ma può anche decidere, semplicemente, di non chiederla affatto la Cassa Integrazione, limitandosi a imporre ai propri dipendenti di stare a casa utilizzando le ferie di cui avrebbero goduto quest’anno. Questo è ad esempio quel che sta accadendo in Fincantieri, come racconta questo articolo sul Fatto Quotidiano di un paio di giorni fa. Certo, laddove esiste una rappresentanza sindacale determinata e capace, le aziende possono essere persuase ad adottare provvedimenti il più possibile equi. Il problema è che in moltissime aziende piccole e medie il sindacato non ha mai messo piede, e di sicuro non comincerà adesso.

L’impostazione generale, dunque, è quella stessa che permeava il Protocollo per il lavoro di qualche giorno fa: si lascia in sostanza il pallino in mano alle imprese, affidando al buon cuore del padronato – o meglio alla combattività delle rappresentanze sindacali e soprattutto agli oggettivi rapporti di forza in ciascun’azienda – la maggiore o minore tutela dei lavoratori.

Un po’ come per quanto riguarda l’utilizzo dei dispositivi di protezione individuale. Su questo punto, il decreto contiene addirittura un peggioramento, dal momento che prevede che “per i lavoratori che nello svolgimento della loro attività sono oggettivamente impossibilitati a mantenere la distanza interpersonale di un metro, sono considerati dispositivi di protezione individuale (DPI) le mascherine chirurgiche reperibili in commercio“: ossia quelle che, quanto a capacità di filtro degli agenti patogeni come il coronavirus, sono notoriamente sostanzialmente inutili.

Va anche riconosciuto, a onor del vero, che tra le misure oggettivamente utili nel decreto è prevista la sospensione di tutti i licenziamenti per motivi oggettivi (collettivi e individuali) per i prossimi 60 giorni. In sostanza, l’epidemia non potrà essere utilizzata come motivazione per lasciare definitivamente a casa nessuno. Almeno per due mesi, poi temo che sarà tutta un’altra storia.

Spiccioli ai precari

Ben vengano i 600 Euro che il governo intende erogare nel mese di marzo a varie categorie di lavoratori autonomi. Il grosso dei circa 3 miliardi di Euro complessivamente stanziati a questo scopo va a piccoli commercianti, artigiani e coltivatori diretti, ai quali spetta anche un credito d’imposta che coprirà, per marzo, il 60% dei canoni di affitto di botteghe e negozi.

200 milioni di Euro invece sono destinati a collaboratori coordinati e continuativi (co.co.co.) e professionisti a partita IVA, purché iscritti alla gestione separata dell’INPS e non iscritti a ordini professionali.

Concentrando l’attenzione su questa categoria, saltano all’occhio quattro ordini di problemi:

  1. se dividiamo 200 milioni per 600 Euro, abbiamo poco più di 300mila “assegni”: a occhio e croce, pochi;
  2. i co.co.co. che hanno diritto alla prestazione sono soltanto quelli che avevano contratti attivi alla data del 23 febbraio: rimangono fuori tutti quelli che erano in attesa di rinnovo, e in generale tutti quelli che, al momento dello scoppio dell’emergenza, non stavano lavorando;
  3. sono comunque fuori, e rimangono del tutto privi di sostegno, tutti i tantissimi precari che vivono di contratti occasionali;
  4. rimangono privi di sostegno anche non pochi professionisti “poveri”: architetti, avvocati, soprattutto giovani, completamente privi di reddito anche a causa (per gli avvocati) del blocco delle udienze; parliamo, a occhio e croce, di svariate decine di migliaia di persone.

Per tutti i lavoratori (dipendenti e autonomi) che per qualsiasi ragione sono stati impoveriti dall’epidemia e non rientrano in nessuna delle categorie per cui sono previste erogazioni, è stanziato un fondo ulteriore di 300 milioni di Euro, ma non sono ancora previsti criteri e modalità con cui verranno riconosciuti questi assegni “di ultima istanza”. Quel che è certo è che la platea è potenzialmente vastissima, tale da rendere lo stanziamento davvero insufficiente: dalle categorie che ho elencato sopra fino a categorie di dipendenti come i lavoratori a chiamata, al momento del tutto privi di reddito.

Altre misure

Tra le altre misure del decreto, spicca l’aumento dell’indennità di congedo parentale, dal 30 al 50% della retribuzione, per i lavoratori con figli fino a 12 anni, ma per la sola durata di 15 giorni.

Inoltre è previsto un pacchetto di 12 giorni di permesso per legge 104 (ulteriori rispetto ai 3 mensili normalmente riconosciuti) per quanti hanno necessità di accudire un parente disabile. Questo periodo ulteriore potrà essere utilizzato nei mesi di marzo e aprile.

I periodi di quarantena, anche fiduciaria (cioè quella di chi non ha contratto il virus ma ad esempio convive con un malato) saranno considerati di malattia ma esclusi dal periodo di comporto, ossia dal numero massimo di giorni di malattia oltre il quale non è garantito il mantenimento del posto di lavoro. Per le persone con gravi disabilità e per chi è immunodepresso, previo rilascio di un apposito certificato medico, sarà possibile equiparare l’assenza legata a un comprovato rischio di contagio a un ricovero ospedaliero, anche questo normalmente escluso dal comporto: sono buone notizie per disabili e malati cronici.

Tutte queste misure rappresentano il tentativo da parte del governo di scaricare la quasi totalità dei costi legati all’epidemia dai conti delle imprese, per porli a carico del bilancio statale. Del resto sarà lo Stato a finanziare parte importante dei costi per l’adeguamento delle misure di protezione nei posti di lavoro, con uno stanziamento complessivo di 50 milioni di Euro, oltre a un credito d’imposta del 50% delle spese per la sanificazione degli ambienti. E sarà ancora lo Stato a incentivare i lavoratori che, nel mese di marzo, sono obbligati ad andare fisicamente al lavoro con un “premio” di 100 Euro (scalati dal prelievo fiscale e dunque in parte regalati alle aziende).

A conti fatti, per i lavoratori, soprattutto i precari, c’è poco più che un contentino, mentre i “soldi veri”, oltre alla scelta su come gestire l’attività produttiva nell’emergenza, rimangono ben saldi nelle mani delle aziende.

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