La posta del cuore dell’AvvocatoLaser

Mi sono tenuto da parte qualche minuto di queste ultime ore del 2019 per rispondere a Federico, che mi ha scritto qualche settimana fa:

Siccome sei avvocato, e siccome sei marxista, con te credo di poter ragionare; spero di non tediarti. Non so se riuscirò mai ad appassionarmi a lavorare col diritto. Tanto che pendo di gettare nel cesso 5 anni di giurisprudenza e andare a studiare altro. Mi manda in crisi pensare che il diritto è il frutto di rapporti di forza, artificialmente complesso, arbitrario in una certa misura. Tu, come hai fatto ad appassionarti alla materia? A me manda in crisi l’idea di dovermi costantemente istruire su regole poste da altri e che nel 99% dei casi non condivido. Del lavoro che sto facendo in studio mi piacciono le storie delle persone. Ma ricondurre queste a questa o quella norma lo trovo gretto, senza poesia, arido. Ho reso l’idea? Scusa se ti disturbo, ma devo risolvere questo conflitto che provo. Devo arrivare a vedere il lato buono del lavoro di avvocato, fino ad identificarmene intimamente, oppure trovare il coraggio di dire a me stesso che questi 5 anni di studi sono serviti solo a farmi capire che devo prendere un’altra strada.

Caro Federico, non mi annoi affatto, anzi, mi dai l’occasione per fare un bilancio della mia esperienza: perciò provo a risponderti.

Credo di essermi trovato in una situazione di incertezza analoga a quella di cui mi parli tu, alla fine del mio periodo di praticantato. Lavoravo in uno studio che si occupava di diritto commerciale e mi resi conto – piuttosto di punto in bianco, devo dire – che dei rapporti contrattuali tra la società Alfa e la società Beta, quale che fosse la mia “cliente”, non mi interessava assolutamente nulla: l’idea di occuparmene non dico per tutta la vita, ma anche solo per sei mesi di più, di colpo mi parve intollerabile.

Me ne andai da quello studio e decisi che, se dovevo fare l’avvocato – prospettiva che all’epoca non davo affatto per scontata – avrei dovuto occuparmi non tanto di una materia, quanto di una “clientela” dei cui diritti mi interessasse. Perciò cercai – non senza qualche iniziale difficoltà – uno studio che si occupasse esclusivamente della tutela dei lavoratori: che la società Alfa ricevesse o meno il pagamento che le spettava non mi faceva né caldo né freddo, ma che il lavoratore Tizio ottenesse la reintegrazione nel posto di lavoro perché era stato licenziato illegittimamente avrei potuto sentirlo anche come una mia vittoria.

Ecco, Federico, a pensarci bene forse in realtà la tua domanda è mal posta, o quantomeno non sono io la persona giusta a cui rivolgerla. A differenza di altri professionisti, io non sono (mai stato) un appassionato del diritto in quanto tale, né mi sento per nulla immedesimato nel lavoro di avvocato in sé. Questo, forse, proprio per le ragioni a cui accenni: essendo marxista, non mi sfugge che non esista qualcosa come “il diritto” puro, astratto: quello con cui abbiamo a che fare è effettivamente il frutto, storicamente determinato, di rapporti di forza. Questo è particolarmente evidente nel diritto del lavoro in cui oltretutto i rapporti di forza – che sono più precisamente i rapporti di forza tra le classi sociali – sono in quest’epoca in Italia e in Europa particolarmente sbilanciati a favore della classe padronale.

Ma la tua perplessità avrebbe senso – e sarebbe la mia – se parlassimo del lavoro del giudice, che queste leggi in difesa della proprietà capitalista e dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo deve farle applicare. Il lavoro dell’avvocato invece è fare del proprio meglio per utilizzare l’ordinamento in favore del proprio cliente nel caso concreto. Il mio lavoro, nello specifico, consiste nel cercare di garantire ai lavoratori che assisto la tutela minima che anche un ordinamento di cui certamente nel complesso non condivido i presupposti né le finalità comunque prevede: il diritto a ricevere lo stipendio, a non essere licenziato arbitrariamente, a ricevere un risarcimento in caso di infortunio sul lavoro, etc..

Si tratta di un lavoro che, personalmente, trovo tanto più interessante sul piano professionale quanto più le “regole del gioco” sono complesse. Mi spiego: è senz’altro utile, ma è terribilmente noioso (arido e senza poesia certamente, anche se di sicuro non gretto) scrivere un ricorso per un lavoratore che non ha ricevuto tre mesi di stipendio o il TFR dal suo datore di lavoro. Invece è stimolante e perfino “divertente”, ad esempio, cercare di dimostrare che un lavoratore formalmente assunto da una cooperativa farlocca, in realtà, doveva considerarsi direttamente dipendente della società committente e che perciò non doveva essere licenziato quando è cambiato l’appalto. E proprio per questa ragione trovo piacevole la parte del mio lavoro che consiste nel tenermi aggiornato (sulle nuove leggi, sulle sentenze e quindi sulle interpretazioni più recenti e autorevoli di norme controverse, etc.) perché è quella che mi consente di affrontare nel migliore dei modi le controversie più interessanti.

Certo, non mi illudo nemmeno per un istante che il mio lavoro possa essere uno strumento davvero efficace per migliorare le condizioni generali della classe lavoratrice: solo la lotta di classe lo è, e infatti a quella dedico una parte importante del mio tempo libero. Ma allo stesso tempo trovo che sia utile anche sul piano collettivo, ed è senz’altro personalmente soddisfacente, non limitarsi ad ascoltare “le storie delle persone”, ma cercare anche di dare a queste storie un finale che renda i loro protagonisti non solo più lieti, ma anche più consapevoli.

Ecco, Federico, questo è il mio punto di vista – personale, ovviamente – non sul mestiere di avvocato ma sul mestiere di avvocato dei lavoratori. Spero che possa esserti utile per trovare la tua strada.

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