Tutele cresciute?

Eccola qui, la prima sentenza che applica i principi enunciati un mese fa dalla Corte Costituzionale a proposito delle tutele crescenti. Proviene da un giudice del Tribunale di Bari, chiamato a decidere sull’impugnazione di un licenziamento collettivo. Vale la pena commentarla, perché illumina uno dei possibili scenari dell’immediato futuro sul tema delle sanzioni per licenziamento illegittimo.

Il giudice ritiene che il licenziamento impugnato, intimato nell’ottobre 2017, sia illegittimo, per molteplici violazioni della procedura prevista dalla legge per i licenziamenti collettivi: qui non importa scendere nel merito delle motivazioni. Dal momento che il rapporto di lavoro era iniziato ad aprile 2016, dopo l’entrata in vigore del Jobs Act, al licenziamento illegittimo si applicano le sanzioni delle tutele crescenti e non più quelle dell’articolo 18 dello Statuto: al lavoratore dunque spetta soltanto il risarcimento del danno e non anche la reintegrazione nel posto di lavoro. Secondo il Jobs Act, il risarcimento dovrebbe essere calcolato in due mesi di stipendio per ogni anno di anzianità, con un minimo di quattro mensilità e un massimo di ventiquattro (nel caso di un rapporto di lavoro iniziato da almeno dodici anni – attualmente impensabile dal momento che la legge si applica ai contratti successivi al 7 marzo 2015). Nel caso esaminato dal giudice, trattandosi di un rapporto durato circa un anno e mezzo, sarebbe dovuto il minimo di quattro mensilità.

Però.

Però la Corte Costituzionale ha appena stabilito che il criterio unico e automatico dell’anzianità di servizio per la quantificazione del risarcimento del danno, ossia proprio le tutele crescenti che costituiscono l’architrave della riforma, è illegittimo. Vero è che la sentenza non è ancora stata pubblicata, ma il giudice barese ritiene di non poter fare finta di niente e decide così:

A fronte di tale pronuncia, pur nella consapevolezza che “Le norme dichiarate incostituzionali non possono avere applicazione dal giorno successivo alla pubblicazione
della decisione” (art. 30 co. 3 l. 87/1953, in ossequio all’art. 136 co. 1 Cost.), e che tale pubblicazione nella specie non è ancora avvenuta, si ritiene di dover interpretare in maniera
costituzionalmente orientata l’art. 3 co. 1 ancora (presumibilmente per pochi giorni) vigente, determinando l’indennità spettante al lavoratore ingiustamente licenziato, compresa fra un
minimo di 4 e un massimo di 24 mensilità, sulla base dei criteri già enunciati dall’art. 18 co. 5 St.lav., a sua volta richiamato dall’art. 18 co. 7, vale a dire “in relazione all’anzianità del
lavoratore e tenuto conto del numero dei dipendenti occupati, delle dimensioni dell’attività economica, del comportamento e delle condizioni delle parti”

Secondo il giudice, una volta pubblicata la sentenza della Corte Costituzionale, l’effetto sarà l’abrogazione dell’intera norma del Jobs Act, e dunque – parrebbe – il ripristino dell’articolo 18 (compresa dunque la reintegrazione nei pochi casi ancora contemplati dalla norma dopo lo scempio della riforma Fornero). Nel frattempo, siccome al momento la sentenza non c’è e dunque l’unica legge che è possibile applicare è il Jobs Act, lo interpreta in maniera “costituzionalmente orientata”, ossia non tenendo conto del meccanismo delle tutele crescenti, ma unicamente del minimo e del massimo di risarcimento: tra quattro e ventiquattro mesi di stipendio. Per scegliere la misura esatta del risarcimento, in sostituzione del criterio delle tutele crescenti, applica i criteri già previsti dall’articolo 18, ossia un mix di anzianità di servizio, organico aziendale e dimensioni dell’attività economica, comportamento e condizioni delle parti.

Sulla base di questi criteri, il giudice finisce per assegnare un risarcimento di dodici mesi di stipendio: non molto in termini assoluti, ma comunque il triplo di quanto sarebbe spettato al lavoratore senza la sentenza della Corte Costituzionale.

Ora, è impossibile sapere come si orienteranno tutte le altre centinaia di giudici italiani, prima e dopo la pubblicazione della sentenza della Corte Costituzionale: molto dipenderà anche da quel ce ci sarà scritto nelle motivazioni. Personalmente sono convinto che, se come pare non verrà dichiarata illegittima tutta la norma ma soltanto la parte relativa alle modalità di quantificazione del risarcimento (ossia le tutele crescenti), la soluzione adottata in via provvisoria dal Tribunale di Bari potrebbe essere la più corretta. Va aggiunto poi che il Decreto Dignità (che nella causa di Bari non si applicava, perché il licenziamento impugnato era precedente alla sua entrata in vigore) ha aumentato minimi e soprattutto massimi del risarcimento, passati da ventiquattro a trentasei mensilità: una norma che quando è stata emanata non aveva alcun valore pratico, minaccia di diventare una pesante spada di Damocle per il padronato. Con il Jobs Act si voleva che il rischio del datore di lavoro per un licenziamento potenzialmente illegittimo fosse minimo ed esattamente calcolabile: applicando la soluzione usata dal Tribunale di Bari, questo rischio diventa non solo molto più consistente (si potrebbero avere risarcimenti mediamente superiori a quelli dell’articolo 18 post-Fornero) ma soprattutto infinitamente più aleatorio.

Un primo, parziale ma salutare colpetto di spugna al Jobs Act. E una palla avvelenata nel campo del governo giallo-verde, che da un lato dovrà per forza metterci una pezza di qualche tipo, ma dall’altro sarà costretto così a rimangiarsi un pezzo importante del Decreto Dignità proprio quando cominciava a servire a qualcosa: chissà che questo non diventi uno dei primi chiodi sulla bara di questo governo.

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