Il Green Pass non è la soluzione

Raramente si è assistito a un dibattito viziato quanto quello sul Green Pass. Discussione ancora più rilevante in considerazione dell’obbligo di possederlo per accedere ai luoghi di lavoro che scatterà il prossimo 15 ottobre per tutti i lavoratori, dopo che i lavoratori del settore scolastico hanno fatto da cavia già dalle scorse settimane.

I sostenitori della misura sono appiattiti sulla narrazione ufficiale del governo, che descrive l’obbligo della certificazione verde come uno strumento fondamentale per la lotta contro il Covid-19, lasciando intendere che vi sia una sorta di equivalenza tra Green Pass e vaccino e, soprattutto, tra vaccino e immunità. Un argomento decisamente confortante che fa leva sulla stanchezza collettiva dopo quasi due anni di “emergenza”, sul timore di una recrudescenza della pandemia e di nuove restrizioni, di ulteriori sacrifici economici: tutti sentimenti più che giustificati. Alla base, il ragionamento è più o meno il seguente: i vaccini sono necessari, il Green Pass serve per costringere chi non l’ha ancora fatto a vaccinarsi, chi comunque non si vaccina è un sabotatore e deve pagare di tasca sua i tamponi necessari a ottenere la certificazione.

Nel fronte dei detrattori, è praticamente soltanto l’assurda posizione anti-vaccinista e complottista ad avere visibilità mediatica nonostante a sostenerla sia una piccola minoranza – non è un caso: serve per avvalorare gli argomenti a favore dell’obbligo del Green Pass. Ogni altra posizione contraria, o anche solo scettica, nei confronti dell’obbligo della certificazione verde, anche quando non metta in discussione l’efficacia dei vaccini, viene ricondotta alla categoria “no-vax”.

Il Green Pass non è un documento sanitario, dicono i medici d’azienda

Paradossalmente, una discussione molto più equilibrata si svolge in queste settimane tra i tecnici, sulle riviste giuridiche e nei convegni specialistici sul Diritto del lavoro. Tra chi, per un motivo o per l’altro, è costretto a guardare sotto la patina della propaganda per poter applicare correttamente le norme, lo scetticismo verso il Green Pass è una posizione se non prevalente, quantomeno molto diffusa, anche – forse sorprendentemente – nel campo degli intellettuali al servizio dei datori di lavoro.

Il documento più interessante in cui mi sono imbattuto è la nota dell’associazione nazionale dei medici d’azienda, ossia dei medici tenuti alla sorveglianza sanitaria nelle aziende: dunque una figura almeno teoricamente (e tutto sommato ragionevolmente spesso in concreto) “neutrale” rispetto al conflitto di classe.

La nota risale al 3 settembre, dunque prima dell’entrata in vigore del decreto-legge 127/2021 che ha esteso l’obbligatorietà del Green Pass per l’accesso a tutti i posti di lavoro, ma contiene riflessioni che forse a maggior ragione sono utili a comprendere i limiti e le criticità della misura.

Prende le mosse da una chiarificazione fondamentale sulle questioni in campo, che vanno tenute ben distinte (mentre sono sostanzialmente confuse nel dibattito pubblico). Una cosa è l’obbligo vaccinale, che al momento è previsto per legge soltanto in ambito sanitario, da aprile, e per i dipendenti delle strutture residenziali, da ottobre.

Tutt’altra cosa è il Green Pass, che “non è un documento sanitario”, bensì un certificato che attesta un mero fatto ossia, alternativamente, l’avvenuta vaccinazione, l’effettuazione di un tampone con esito negativo, l’intervenuta guarigione dal Covid-19.

[Di passaggio, proprio in questo risiede il motivo per cui è stato ritenuto, dal Consiglio di Stato e dall’Autorità garante, che il controllo del possesso di una certificazione valida non comporti violazione della privacy: chi controlla non è – o almeno non dovrebbe essere: vedremo come saranno in concreto effettuati i controlli – in grado di sapere per quale via il lavoratore abbia ottenuto il pass.]

Per questa ragione, “l’intero impianto normativo che regola il green pass non nomina mai il MC in nessun punto e per nessun aspetto e tantomeno offre qualche tipo di collegamento con la idoneità/inidoneità del lavoratore.

Questa precisazione si rendeva necessaria all’inizio di settembre perché già in luglio e agosto alcune imprese (tra queste la Sterilgarda di Mantova) avevano minacciato i lavoratori privi di Green Pass di demansionamento o sospensione senza stipendio invocando, a sostegno delle loro tesi, la necessità di tutelare gli altri dipendenti e dunque, indirettamente, l’inidoneità al lavoro.

Lo scopo della presa di posizione dunque, per i medici competenti, era chiarire che le imprese non possono far ricadere su di loro la responsabilità di eventuali sospensioni dal servizio. Questa responsabilità se l’è poi assunta direttamente il governo. Ma questa scelta, che ha natura esclusivamente politica, non cambia la sostanza, ossia che il Green Pass non è e non potrà mai essere una misura sanitaria, di contrasto all’epidemia.

È questo l’aspetto più significativo della nota:

il rispetto delle misure stabilite dal c.d. Protocollo Condiviso del 6 aprile u.s. resta ad oggi l’arma istituzionale efficace per contrastare il contagio da SARS-CoV-2 nei luoghi di lavoro e nelle occasioni di lavoro. È bene ricordare – e il MC lo deve richiamare in Azienda – che, allo stato attuale, la possibilità di contagiare e di contagiarsi sussiste indipendentemente dalla condizione vaccinale e/o dal possesso del green pass. Il certificato verde non rappresenta una misura di sicurezza per il Datore di Lavoro, a meno che non derivi dal reiterato controllo ogni 48h tramite tampone.

Questa conclusione rimane perfettamente valida anche dopo l’estensione dell’obbligo del Green Pass a tutti i lavoratori, e anzi è a maggior ragione ancora più valida dal momento che il governo – con un’altra decisione che non solo non ha alcuna base scientifica, ma contrasta con quello che sappiamo finora – ha arbitrariamente esteso la durata della certificazione conseguita con la vaccinazione fino a dodici mesi.

I tamponi devono essere gratuiti per i lavoratori

Del resto, in un convegno di pochi giorni fa un relatore, avvocato che assiste importanti datori di lavoro, si poneva il problema di come proteggere i suoi clienti dal rischio di contagi in azienda da parte di lavoratori legittimamente esentati dal Green Pass, potenzialmente contagiosi e non soggetti neppure all’obbligo di sottoporsi al tampone. Ma questo stesso rischio non si può in alcun modo escludere neppure per soggetti vaccinati ormai quattro o cinque mesi fa e dunque in possesso di regolare certificato, ma potenzialmente contagiabili e contagiosi.

La soluzione a questo problema in realtà esiste ed è segnalata dall’associazione dei medici competenti: risiede nel “reiterato controllo ogni 48h tramite tampone”. Ma è una soluzione sgradita ai datori di lavoro: se i tamponi sono effettivamente una misura di contrasto al contagio, e dunque, sui luoghi di lavoro, uno strumento di protezione sanitaria dei dipendenti, allora il loro costo non può essere in nessun caso un onere per i lavoratori, ma dovrebbe essere a carico delle imprese.

Precisamente quello che il governo ha voluto escludere, sostenuto nella sua propaganda dai vari Burioni e compagnia che invocano addirittura il boicottaggio per quelle poche imprese che hanno dichiarato – anche per ragioni di marketing – di voler sostenere il costo dei tamponi per i propri dipendenti (non vaccinati).

Personalmente, sono totalmente convinto dell’utilità del vaccino e credo che tutti quelli che non hanno ragionevoli motivi (cioè, semplificando, condizioni di fragilità o malattie pregresse) per temere effetti collaterali negativi dovrebbero vaccinarsi. Comprendo le ragioni per cui almeno nel settore sanitario sia stato previsto l’obbligo vaccinale anche se non credo che estenderlo alla generalità della popolazione sia di per sé il miglior modo di convincere gli indecisi.

Invece – e dovreste averlo capito – sono irriducibilmente contrario all’obbligo del Green Pass specialmente sui luoghi di lavoro, e non solo perché credo sia il modo migliore per irrigidire chiunque nutra dubbi (più o meno ragionevoli) sulla vaccinazione. Soprattutto perché, smontata la tesi che si tratti di una misura sanitaria, l’obbligo della certificazione e la connessa “tassa” imposta alle persone non vaccinate sotto forma di tamponi a pagamento rimangono nient’altro che misure inutilmente repressive e discriminatorie, prive di reale utilità.

A maggior ragione dal momento che non è neppure chiaro chi sono i soggetti legittimamente esentati dall’obbligo. Ai sensi dell’ultimo decreto-legge sono “i soggetti esenti dalla campagna vaccinale sulla base di idonea certificazione medica rilasciata secondo i criteri definiti con circolare del Ministero della Salute”. Il Ministero della Salute, dal canto suo, per il momento si è limitato a prorogare fino al 30 novembre le circolari emanate lo scorso agosto, che in buona sostanza lasciano nelle mani dei medici di base e territoriali la patata bollente di valutare caso per caso. Con ovvie conseguenze in termini di arbitrio e discrezionalità (un caso eclatante di discrezionalità riguarda la condizione delle donne in gravidanza).]

Semmai, le scelte del governo servono a distrarre l’attenzione dalla sua incapacità di prendere misure davvero necessarie: dalle chiusure a macchia di leopardo dell’epoca del primo lockdown fino alla stessa organizzazione della campagna vaccinale, che soprattutto nei primi mesi è stata confusa e inefficiente nonostante tutti i proclami, con in mezzo il mancato potenziamento delle strutture sanitarie territoriali, delle strutture scolastiche e dei trasporti pubblici.

Prima riporteremo la discussione su questi binari, evitando i capri espiatori e richiamando il governo alle sue responsabilità, pretendendo tamponi gratuiti per tutti e sanità universale invece di misure divisive, e meglio potremo contrastare il virus.

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