Noi l’avevamo detto (che il Jobs Act era una fregatura)

La scorsa primavera aveva avuto una certa eco la decisione della Corte di giustizia dell’Unione Europea che i giornali nostrani avevano riassunto con “Non è discriminatoria e non va contro il diritto europeo la mancata reintegra in caso di licenziamento illegittimo” (così il Fatto Quotidiano, che pure è uno dei meno peggio).

La faccenda era un po’ più complicata. L’intervento della CGUE era stato richiesto dal Tribunale di Milano nel corso di una causa promossa da una lavoratrice per impugnare il licenziamento intimato dalla società Consulmarketing S.p.A.. Si trattava in realtà di una procedura di licenziamento collettivo che aveva coinvolto complessivamente circa 350 lavoratori.

Quasi tutti erano stati assunti prima del Jobs Act, e in base all’articolo 18 dello Statuto avevano diritto, in caso di licenziamento illegittimo, alla reintegrazione. Quest’unica dipendente invece era stata assunta a termine prima dell’entrata in vigore del Jobs Act, ma il contratto di lavoro era stato convertito a tempo indeterminato soltanto (subito) dopo. Dunque, per un licenziamento illegittimo esattamente quanto quello dei suoi colleghi, avrebbe avuto diritto soltanto a un modesto risarcimento (all’epoca nell’ordine dei sei mesi di stipendio).

Perciò il giudice aveva interrotto la causa e aveva chiesto alla CGUE di valutare se questa vera e propria discriminazione fra i due trattamenti fosse o meno compatibile con le norme europee.

La Corte UE aveva ovviamente riconosciuto la sussistenza di una disparità di trattamento, tuttavia aveva affermato che “fatte salve le verifiche che devono essere effettuate dal giudice del rinvio […] l’assimilazione a una nuova assunzione della conversione di un contratto di lavoro a tempo determinato in un contratto a tempo indeterminato rientra in una più ampia riforma del diritto sociale italiano il cui obiettivo è quello di promuovere le assunzioni a tempo indeterminato. In tali circostanze una siffatta misura di assimilazione si inserisce in un contesto particolare, dal punto di vista sia fattuale che giuridico, che giustifica in via eccezionale la differenza di trattamento.

In sostanza, dicevano i giudici di Lussemburgo, se diminuire le tutele in caso di licenziamento illegittimo serve a favorire le assunzioni a tempo indeterminato, allora si può tollerare. Se vi ricordate, questa era esattamente l’argomentazione di Renzi e dei suoi seguaci (all’epoca tantissimi) per giustificare l’epocale compressione dei diritti dei lavoratori.

Era chiaro fin da subito che fosse una balla altrettanto epocale. Già alla fine del 2015 comparivano studi scientifici che dimostravano come non esistesse alcun legame tra diminuzione delle tutele per licenziamento illegittimo e aumento dell’occupazione a tempo indeterminato. Per il terzo compleanno della riforma, perfino il Sole24Ore era costretto ad ammettere che ad aumentare erano stati soltanto i contratti a termine (ne avevo scritto qui).

Abbastanza sorprendentemente, è quello che scrive, quasi con queste stesse parole, anche il Tribunale di Milano nella sua decisione resa qualche settimana fa all’esito del giudizio della CGUE.

Il Tribunale coglie al balzo l’indicazione della Corte di Lussemburgo secondo cui è al “giudice del rinvio”, ossia quello che esamina il merito della vicenda, che spetta valutare se le ragioni che giustificano la differenza di trattamento sussistano in concreto: “occorre verificare che effettivamente l’introduzione di tutele più attenuate in caso di licenziamento illegittimo sia diretta ad incentivare le assunzioni a tempo indeterminato.

In altre parole, occorre “verificare se la legge sia in rapporto logico con il fine che la giustificherebbe come ragionevole. Nel caso in esame, che riguarda in fondo la razionalità di una norma che si pone come obiettivo la crescita dell’occupazione attraverso un mutamento in peius delle tutele, entrambi questi elementi di giudizio (pertinenza e congruenza) non sussistono.

Il giudice arriva a questa conclusione sulla base del fatto che “tale disposizione non trova alcuna giustificazione razionale sul piano empirico, dal momento che nessuna correlazione positiva tra riduzione delle tutele e incremento dell’occupazione è mai stata avvalorata nella letteratura economica. […] Nello stesso senso depone l’esperienza applicativa italiana del contratto a tutele crescenti. Ad oltre tre anni dall’entrata in vigore della legge, il risultato sperato, ossia l’aumento delle occupazioni stabili si è rivelato del tutto deficitario. Infatti, esauriti gli effetti degli sgravi contributivi connessi alle assunzioni a tempo indeterminato, si è assistito alla utilizzazione in misura preponderante dei contratti a termine nonostante il loro maggiore costo contributivo.

In mancanza di una valida giustificazione per la differenza di trattamento, il giudice perciò ritiene di disapplicare il Jobs Act, applicando invece anche in questo caso le tutele previste dall’articolo 18.

Applausi e sipario.

C’è però qualche riflessione da aggiungere. Con una sentenza straordinaria, nel senso letterale del termine, il Tribunale di Milano conferma quel che si sapeva fin da principio, e che solo le persone in malafede negavano: che tutto l’impianto del Jobs Act, e in particolare le tutele crescenti, non erano altro che un gigantesco regalo al padronato italiano. Che questa sentenza venga confermata in appello o meno, il giudizio politico su questa controriforma non potrà che rimanere immutato.

Se si trattasse di una discussione accademica, avremmo il nostro bel piacere nel poter rinfacciare a Renzi e alla sua cricca che “noi l’avevamo detto“. Peccato che la questione sia invece estremamente concreta e riguardi la pelle di milioni di lavoratori, ai quali questa sentenza non sarà di nessuna utilità dal momento che oltretutto riguarda un’ipotesi piuttosto marginale (quella dei lavoratori assunti a tempo determinato prima del Jobs Act, e confermati a tempo indeterminato dopo), per giunta superata dalle modifiche che la Corte Costituzionale ha già imposto.

A conti fatti, probabilmente non sarà utile neppure alla stessa lavoratrice che ha vinto la causa. Infatti nel tempo necessario per ottenere giustizia, il datore di lavoro è fallito e il diritto alla reintegrazione non potrà comunque essere esercitato, mentre quello al risarcimento verrà riconosciuto in “moneta fallimentare”, cioè solo in piccola parte.

Questa è l’ulteriore riprova che, anche nella migliore delle ipotesi, le aule del tribunale sono il rimedio meno efficace contro i soprusi subiti dai lavoratori: è solo il movimento organizzato dei lavoratori che può ottenere successi reali. È una lezione che converrà imparare in fretta, viste le prime settimane dalla fine del blocco dei licenziamenti.

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