I tre anni delle tutele crescenti

Per un curioso segno del destino il 4 marzo, giorno che dell’annunciata ma pur sempre clamorosa batosta del Partito Democratico, era anche il terzo compleanno della riforma-manifesto del suo governo: il contratto a tutele crescenti. Il dibattito pubblico si è concentrato, comprensibilmente, sugli effetti della riforma sul mercato del lavoro: anche Il Sole 24 Ore non ha potuto far altro che riconoscere che, dopo il boom degli sgravi contributivi che hanno enormemente gonfiato le statistiche per il 2015, le assunzioni a tempo indeterminato sono calate perfino rispetto al 2014, mentre sono aumentate considerevolmente le assunzioni a termine, anche grazie alla definitiva abrogazione dell’obbligo della causale. Nulla di stupefacente in realtà.

Possono sorprendere invece le conclusioni a cui stanno giungendo gli specialisti del diritto (anche di parte datoriale) confrontando la giurisprudenza che si è ormai consolidata, anche in Cassazione, sull’articolo 18 post riforma Fornero, con quella che sta cominciando ad affermarsi nei Tribunali e nelle Corti d’Appello sui licenziamenti illegittimi nell’epoca delle tutele crescenti.

Occorre ricordare che la riforma Fornero del 2012 (qui il sunto che ne avevo fatto all’epoca), pur non abolendolo del tutto, aveva drasticamente depotenziato l’articolo 18 dello Statuto: mentre prima della riforma ogni volta che il licenziamento fosse stato dichiarato illegittimo il lavoratore avrebbe avuto diritto alla reintegrazione, a seguito delle modifiche la reintegra veniva prevista quasi esclusivamente in alcune ipotesi di illegittimità del licenziamento disciplinare, rimanendo di fatto come sanzione residuale per pochi casi particolarmente gravi. All’epoca i difensori “da sinistra” della riforma tendevano a sminuire l’effetto della nuova legge, sostenendo piuttosto superficialmente che la reintegrazione sarebbe comunque rimasta il rimedio principale. La Corte di Cassazione ha sfornato negli ultimi mesi tutta una serie di sentenze che dimostrano precisamente il contrario, spiegando ad esempio che:

  • in caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo (cioè per ragioni economiche) la reintegrazione è un rimedio residuale, che si applica solo in casi di manifesta insussistenza del motivo indicato dal datore di lavoro;
  • in caso di licenziamento disciplinare, la circostanza che la contestazione sia stata comunicata anche a distanza di anni dal fatto di per sé non comporta la nullità del licenziamento, che può benissimo essere sanzionato con il solo risarcimento del danno;
  • in caso di licenziamento collettivo, l’incompletezza delle comunicazioni previste obbligatoriamente dalla legge non costituisce violazione dei criteri di scelta e comporta solo il risarcimento del danno.

Queste sentenze sono accomunate dall’idea di fondo (che è precisamente il criterio ispiratore della riforma Fornero) che nessuna violazione soltanto formale, per quanto gravissima, può mai essere sanzionata con la reintegrazione, e per quanto riguarda i licenziamenti economici il risarcimento del danno è comunque la regola anche in caso di violazioni sostanziali, salvo che in rarissime eccezioni.

Rispetto a quell’impianto, il Jobs Act nel 2015 intendeva da un lato diminuire drasticamente l’entità dei risarcimenti economici, dall’altro ridurre ulteriormente le ipotesi di reintegrazione, rendendole residuali anche nel caso dei licenziamenti disciplinari e non solo per i licenziamenti economici. A tre anni di distanza, non c’è dubbio che il primo obiettivo sia stato raggiunto. Chi fosse stato assunto all’indomani dell’entrata in vigore da un’azienda con più di quindici dipendenti e venisse licenziato oggi, dopo tre anni, per ragioni economiche che vengano dichiarate inesistenti, riceverebbe un risarcimento di sei mesi di stipendio: la metà del minimo, già modesto, previsto dalla riforma Fornero. I nuovi assunti sono obbligati ad accettare qualsiasi sopruso, perché se appena alzano la testa sono fuori con un tozzo di pane: in questo modo si è ridotto in generale tutto il contenzioso, perché fare una causa quando il rapporto di lavoro è ancora in corso diventa troppo rischioso, e farla quando è terminato per impugnare il licenziamento non vale poi tanto la pena.

Sul secondo obiettivo invece pare ci sia ancora da lavorare. La legge stabilisce che la reintegrazione possa essere disposta “esclusivamente nelle ipotesi di licenziamento per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa in cui sia direttamente dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore, rispetto alla quale resta estranea ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento“. Nelle intenzioni del legislatore, doveva essere esclusa ogni valutazione sulla rilevanza giuridica di un fatto materialmente avvenuto: se ti licenzio perché hai lasciato alzata la tavoletta del wc, e tu hai davvero lasciato alzata la tavoletta del wc, il licenziamento è considerato illegittimo perché da nessuna parte sta scritto che sia vietato, ma ti spetta solo il (modesto) risarcimento e non la reintegrazione. Invece le prime sentenze dei Tribunali e delle Corti d’Appello (per la Cassazione è ancora presto) interpretano la norma in senso estensivo, “non solo nel senso di non esistenza del comportamento contestato, nella sua materialità, ma anche in quello di irrilevanza disciplinare dello stesso, sotto il profilo giuridico” (Corte d’Appello dell’Aquila, 14.12.2017): dal momento che nessuna norma considera in alcun modo punibile il non aver abbassato la tavoletta del wc, sono obbligato a reintegrarti.

Per questo, a un convegno di qualche mese fa, un relatore che abitualmente assiste i datori di lavoro suggeriva ai suoi clienti di indicare sempre ragioni economiche e non disciplinari per motivare il licenziamento, per evitare il rischio di dover reintegrare il lavoratore. Nell’ultimo numero della rivista specializzata del Sole 24 Ore, del resto, gli autori di un interessante editoriale (gli avv.ti Giampiero Falasca e Daniela Fargnoli, che assistono prevalentemente i datori di lavoro) concludono che

le interpretazioni della giurisprudenza assottigliano molto le differenze tra l’articolo 18 [nella versione post riforma Fornero] e il contratto a tutele crescenti: […] l’elemento distintivo tra i due regimi finisce per essere il meccanismo di computo dell’indennità risarcitoria. E tale conclusione può sorprendere solo chi ha voluto vedere nel D.Lgs. n23/215 una svolta epocale. L’interesse mediatico tanto dei sostenitori quanto degli oppositori della riforma era quello di enfatizzare la differenza tra le tutele crescenti e l’articolo 18; questa lettura convergente ha fatto perdere di vista il fatto che la ‘vera’ riforma dei licenziamenti è quella approvata nel 2012. È con la legge n. 92/2012, infatti, che viene per la prima volta resa marginale ed eventuale la sanzione della reintegra.

Condivido questa opinione, per trarne la conclusione opposta: non solo vanno cancellate le “tutele crescenti”, ma bisogna abolire anche la riforma Fornero e tornare all’articolo 18 nella sua forma originale. Solo garantendo il diritto alla reintegrazione in tutti i casi di licenziamento illegittimo si potranno tutelare anche tutti gli altri diritti.

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