Capitani coraggiosi

Se non sapete cosa leggere, vi consiglio il libro pubblicato poche settimane fa da Confindustria, un’opera di fantascienza distopica intitolata Il coraggio del futuro – Italia 2030-2050. Si può scaricare gratuitamente qui. Nelle sue quasi quattrocento pagine affronta una molteplicità di temi, che spaziano dalla necessità di semplificare il sistema della giustizia e l’iter legislativo all’opportunità di depenalizzare l’evasione fiscale, dalla questione climatica che dovrà essere il volano per nuove opportunità di business alla necessità che lo Stato stimoli l’economia attraverso una forte domanda pubblica, dalla sempreverde “digitalizzazione” all’alta velocità.

Per deformazione professionale, sono andato dritto al capitolo intitolato Prendersi cura del lavoro e dei lavoratori. È bello che Confindustria ritenga che nel futuro le imprese dovranno prendersi cura (più di quanto non accada adesso, ovvio!) dei loro dipendenti, no?

Ah, no.

In realtà l’idea degli industriali è proprio un’altra: che a prendersi cura dei lavoratori ci pensi lo Stato, loro devono già prendersi cura degli affari. È lo stesso schema del resto dell’opera, del resto: il coraggio del futuro del titolo è in effetti il coraggio (nel senso di “faccia tosta”) di pretendere che i soldi ce li metta lo Stato, mentre gli industriali si godono i profitti.

È importante però che questo intervento pubblico si discosti dal modello attuale, fatto di sussidi a pioggia che non invogliano i disoccupati ad accettare lavori troppo insicuri, precari e sottopagati. No: lo Stato deve rendere questi lavoratori più “occupabili”, fin dalla culla.

Il primo punto all’ordine del giorno infatti è cambiare il sistema educativo, che non è in grado di assolvere oggi ai suoi compiti.

In generale, l’ascensore sociale sembrerebbe bloccato, con evidenze empiriche del fatto che i giovani provenienti da realtà sociali ed economiche avvantaggiate riescono a conseguire in 9 casi su 10 i più alti livelli di studio. Mentre in 6 casi su 10 i meno avvantaggiati, che avranno rispetto ai primi più difficoltà di inserirsi nel mercato del lavoro, rischiano di finire nella “trappola NEET”, che in Italia conta oltre 2 milioni di giovani tra i 15 e 29 anni.

La soluzione, parrebbe scontato, è ridurre lo svantaggio assicurando un sistema pubblico di compensazioni, che porti anche i bambini e i ragazzi che provengono da famiglie meno abbienti al livello di partenza dei loro compagni più fortunati. Su questo siamo tutti d’accordo, giusto?

Sbagliato. Di simili ovvie misure non vi è cenno nel documento di Confindustria, la cui proposta invece è un’altra: “la principale azione da svolgere, come policy particolare, è la realizzazione di una seconda gamba dell’istruzione terziaria, quella professionalizzante“. Basta mandare gli studenti svantaggiati a fare brutte figure al liceo, che vadano invece al professionale, così imparano a fare qualcosa di utile (alle imprese, perlomeno)! Ecco perché è un vero scandalo che sia stato dimezzato il finanziamento ai progetti di alternanza scuola-lavoro, una vera palestra di vita oltre che spesso – ma non si può dire ad alta voce – serbatoio di manodopera non qualificata a costo zero.

Per il resto, le carenze del sistema educativo sono colpa delle strutture vetuste e soprattutto degli insegnanti poco digitali. Mai che si affermi però che bisognerebbe aumentare, e di molto, i finanziamenti all’istruzione pubblica per ovviare all’una e all’altra criticità.

Il secondo pilastro su cui dovrà reggersi l’intervento pubblico in favore dei lavoratori, secondo Confindustria, è quello della formazione continua, destinata soprattutto a quelli che hanno perso il lavoro, che dovrebbero poter percepire misure di sostegno al reddito come la Naspi solo a condizione che “collaborino attivamente” alla ricerca di una nuova occupazione, frequentando corsi, etc.. In realtà questo non è il futuro, la Naspi funziona già proprio in questo modo.

Quel che importa davvero è l’altro lato della medaglia. Se diamo per assolto il compito (dello Stato) di rendere i lavoratori più “occupabili”, a quel punto possiamo lasciare campo libero a una precarietà senza limiti, sul fronte dell’ingresso nel lavoro: contratti a termine e apprendistato – meglio ancora se tramite agenzie di somministrazione – come forme elettive di assunzione.

Ma soprattutto lasciamo alle imprese la facoltà di lasciare a casa chi gli pare e quando gli pare in tutta tranquillità. Tranquillità che dovrà avere anche il lavoratore (siamo sulla stessa barca, no?) perché i licenziamenti (per giustificato motivo oggettivo) “non costituiscano più un evento traumatico ma possano essere vissuti dal lavoratore in un quadro di garanzie tali da renderlo un possibile momento fisiologico dell’attività lavorativa“. La morte stessa non è forse parte della vita?

In concreto, la proposta qui è quella di disincentivare il ricorso al giudice per promuovere strumenti di conciliazione che diano al licenziamento un “prezzo certo” e conoscibile in anticipo. Confindustria non lo dice, ma il riferimento qui non può che essere ai licenziamenti illegittimi, dal momento che in caso di licenziamento per motivi validi non è previsto alcun costo a carico dell’impresa.

Un paragrafo a parte è dedicato alle retribuzioni. Qui i concetti chiave sono: sì al salario minimo fissato per legge, purché sia davvero minimo; no ad aumenti salariali, ma in cambio vi diamo il welfare privato, così lo Stato può continuare a tagliare i servizi pubblici e la smette di fare concorrenza alle imprese che operano in quei settori. Pronti per la prossima epidemia?

Non mi dilungo oltre per non fare troppi spoiler sul resto dell’interessantissimo volume.


In conclusione di questo post segnalo che l’Ispettorato nazionale del lavoro è intervenuto a metà settembre sull’interpretazione da fornirsi al divieto di licenziamento contenuto nel decreto di agosto. Avevo scritto all’epoca che ero certo che la norma, scritta in modo tanto farraginoso, avrebbe sicuramente provocato discussioni e interpretazioni discordanti. In effetti, l’inchiostro non si era ancora asciugato sulla Gazzetta Ufficiale che l’autentico significato della disposizione era diventato un campo di battaglia tra giuristi pro-labour e avvocati delle imprese: gli uni a sostenere, come me, che il divieto di licenziamento rimaneva comunque universale (almeno fino a completo esaurimento degli ammortizzatori sociali disponibili) e copriva dunque ogni tipo di licenziamento collettivo o per giustificato motivo oggettivo; gli altri a suggerire invece che la norma riguardasse soltanto eventuali licenziamenti “causa Covid”, rimanendo invece (finalmente!) liberi licenziamenti per gmo motivati da necessità di riorganizzazione aziendale indipendente dalla pandemia.

L’INL chiarisce – a dire il vero con una formulazione un po’ pavida – che avevamo ragione noi:

“Salvo eventuali modifiche che potranno intervenire in sede di conversione del decreto legge il divieto di licenziamento, quale misura di tutela dei livelli occupazionali durante il periodo emergenziale, sembra pertanto operare per il solo fatto che l’impresa non abbia esaurito il plafond di ore di cassa integrazione disponibili e ciò sia quando abbia fruito solo in parte delle stesse, sia quando non abbia affatto fruito della cassa integrazione. In tale ultimo caso, laddove il datore di lavoro non abbia ritenuto di fruire della cassa integrazione, il licenziamento sarebbe in ogni caso impedito dalla possibilità di accedere all’esonero dal versamento contributivo di cui all’art. 3.

Punto per noi, ma la partita è lunga e dobbiamo rimontare ancora parecchio.

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