Lo scaricabarile

Il tema del giorno è la “folla” che si è riversata sui Navigli milanesi all’indomani dell’apertura della “Fase 2”. Il sindaco Sala, quello che #MilanoNonSiFerma, adesso tuona contro i suoi concittadini parlando di vergogna e lanciando ultimatum. Se il virus tornerà a diffondersi – è l’ovvio sottotesto – la colpa è degli individui irresponsabili che si bevono una birretta all’aperto dopo due mesi di isolamento domiciliare.

Ci sarebbe da ridere osservando meglio la foto di Repubblica che ha dato il via alla nuova caccia all’untore, come ha fatto ad esempio Wired: è così deformata dal teleobiettivo che i ponti sul naviglio grande sembrano uno sopra l’altro.

Ma è difficile rimanere di buon umore quando ci si rende conto che questa stupidaggine non è altro che un tassello nella narrazione che la classe imprenditoriale ha tutto l’interesse e le intenzioni di imporre nella prossima fase.

La Repubblica, passata da poche settimane sotto il controllo della famiglia Agnelli, attacca dal lato dei mass media. È una pedina nello scacchiere di una partita dalla posta enorme: il gioco si chiama Chi pagherà per l’epidemia?

Appena eletto presidente di Confindustria, Carlo Bonomi ha messo le mani avanti: “Ho l’impressione che ci si prepari a scaricare le responsabilità su banche e imprese. Non lo permetteremo”, ha detto all’inizio di questa settimana in una delle sue prime interviste.

Il concetto è chiaro. Per la classe padronale, mentre è necessario rimettere in moto la macchina del profitto riaprendo tutto quel che vale la pena riaprire, non è ammissibile essere tenuti responsabili del plausibile nuovo picco di contagi. Molto meglio scaricare la responsabilità – e i relativi costi – sulla collettività: INPS, INAIL, o direttamente le tasche dei lavoratori.

In termini giuridici, la questione è scottante e divide il campo in maniera piuttosto netta. Da un lato, chi difende le imprese punta a dimostrare che è altrettanto facile ammalarsi di Covid-19 fuori dei luoghi di lavoro che in azienda: perciò un lavoratore contagiato non potrà mai e in nessun modo provare di essersi ammalato a causa dell’inosservanza delle necessarie misure di sicurezza sul posto di lavoro; se si ammala, che ci pensi l’INPS a pagargli la malattia (o meglio l’INAIL, dato che al momento il contagio da Covid-19 è assimilato a infortunio sul lavoro). La criminalizzazione dei comportamenti individuali è funzionale a questa tesi: è vero che ti sei ammalato proprio dopo essere rientrato in azienda, ed è vero che non c’erano mascherine per tutti e che il distanziamento non era davvero rigoroso (d’altronde, come si fa?), ma… dov’eri venerdì sera? O peggio ancora: dov’era tuo figlio venerdì pomeriggio? Magari al parco con gli amici? Il corollario di questa tesi è che sia inutile e sbagliato pretendere dalle imprese misure di sicurezza eccessivamente puntuali, perché tanto il virus si diffonde lo stesso. E proprio perché il virus colpisce tutti e ovunque allo stesso modo, è inutile stabilire l’obbligo di aggiornare il Documento di Valutazione dei Rischi – obbligo fastidioso perché renderebbe più semplice, in caso di inosservanza, dimostrare la responsabilità dell’azienda inadempiente.

Su questo punto, di cui ho accennato a proposito dei Protocolli sulla sicurezza, va registrato che il Ministero della Salute ha specificato in una circolare della scorsa settimana che “sarà necessario adottare una serie di azioni che andranno ad integrare il DVR, atte a prevenire il rischio di infezione da SARS-CoV-2 nei luoghi di lavoro contribuendo, altresì, alla prevenzione della diffusione dell’epidemia.”

Questa indicazione rafforza la tesi opposta a quella delle imprese, e va sostenuta con forza: il datore di lavoro che non crei un ambiente davvero sicuro, dovrà essere responsabile per i lavoratori che si ammalano e pagare di tasca sua, senza scaricare i costi della malattia su INPS o INAIL, cioè sulla collettività.

È una tesi coerente con i principi giuridici generali. Il nostro ordinamento prevede – in ambito penale, ma il principio è applicabile anche alla responsabilità per infortunio sul lavoro – che “il concorso di cause preesistenti o simultanee o sopravvenute, anche se indipendenti dall’azione od omissione del colpevole, non esclude il rapporto di causalità fra l’azione od omissione e l’evento“, tranne nel caso in cui le cause sopravvenute “sono state da sole sufficienti a determinare l’evento“. Che cosa significa? Che è vero che il lavoratore si può ammalare anche fuori dal luogo di lavoro, ma che se è possibile dimostrare che non siano state rispettate le misure di sicurezza necessarie, allora il datore di lavoro rimane responsabile. Certo, non aiuta il fatto che i protocolli sulla sicurezza contengano indicazioni vaghe e in larga misura discrezionali su quali siano le misure di sicurezza necessarie. Rimane comunque fermo il principio che le misure da adottare sono quelle adeguate secondo le migliori conoscenze tecniche di prevenzione del momento.

Secondo la legge, la responsabilità è però comunque esclusa nel caso in cui il comportamento del lavoratore fuori dal luogo di lavoro lo abbia esposto a un rischio superiore a quello normale. Ed ecco a che cosa serve, in soldoni, l’enfasi sull’affollamento sui navigli: a precostituire l’argomento per cui, se un lavoratore si ammala, probabilmente “se l’è cercata”.

La prospettiva falsata dei Navigli serve a falsare anche la prospettiva sui veri responsabili del contagio e a scaricare i costi dalle imprese alla collettività: non ce lo possiamo permettere.

Condividete se vi piace!

Leave a Reply

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.