Hai voluto la bicicletta? Pedala! Note sulla sentenza Foodora

Tre giorni fa il Tribunale di Torino ha pubblicato le motivazioni della sentenza con cui, il mese scorso, ha dato torto a sei rider di Foodora nella causa per l’accertamento della natura subordinata del loro rapporto di lavoro. Si possono leggere integralmente qui.

I lavoratori erano stati ingaggiati con contratti di collaborazione coordinata e continuativa, nei primi mesi del 2016. Nel ricorso chiedevano che venisse accertato che questi contratti mascheravano in realtà dei veri e propri contratti di lavoro subordinato.

Il Jobs Act e la finta abolizione dei contratti di collaborazione

Sentite una campanella squillare? Anche io! Ci ricorda che, al varo del Jobs Act, Renzi e i suoi accoliti avevano strombazzato ai quattro venti che la riforma avrebbe abolito i contratti a progetto, e che anche solo per questo era da considerarsi una grande conquista sociale. Tre anni fa, sottolineando il fatto che non sarebbe cambiato molto rispetto a prima, avevo commentato così:

pare proprio che la montagna abbia partorito il topolino. La sbandierata abolizione dei contratti a progetto ha tante deroghe quanti buchi un groviera (per restare in tema di topolini)

In pratica, il rischio che intravedevo era che il Jobs Act conservasse le collaborazioni limitandosi a cancellare il progetto, unico requisito oggettivo che consentiva in precedenza di distinguere le collaborazioni farlocche da quelle legittime.

Per la precisione, la norma del Jobs Act prevede che “a far data dal 1° gennaio 2016, si applica la disciplina del rapporto di lavoro subordinato anche ai rapporti di collaborazione che si concretano in prestazioni di lavoro esclusivamente personali, continuative e le cui modalità di esecuzione sono organizzate dal committente anche con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro.

Può applicarsi questa norma alle collaborazioni coordinate e continuative dei rider di Foodora? No, ha risposto il giudice di Torino, confermando a distanza di tre anni i miei timori:

Forse nelle intenzioni del legislatore la norma avrebbe dovuto in qualche modo ampliare l’ambito della subordinazione, includendovi delle fattispecie fino ad allora rientranti nel generico campo della collaborazione continuata.

Ma così non è stato.

[…] La norma dispone infatti che sia applicata la disciplina del rapporto di lavoro subordinato qualora le modalità di esecuzione della prestazione siano organizzate dal committente anche con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro: è quindi necessario che il lavoratore sia pur sempre sottoposto al potere direttivo e organizzativo del datore di lavoro e non è sufficiente che tale potere si estrinsechi soltanto [corsivo mio] con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro […]

Così come è stata formulata, la norma viene quindi ad avere un ambito di applicazione più ristretto di quello dell’art. 2094 c.c.

In sostanza, secondo il Tribunale di Torino, la disciplina del rapporto di lavoro subordinato si applica solo… ai rapporti di lavoro subordinato.

È un’interpretazione discutibile, perché priva di contenuto una norma che già ne aveva poco. Ma è un’interpretazione comunque possibile perché la legge è volutamente scritta in modo ambiguo. Non a caso, tre anni fa scrivevo che la “nuova” legge, al di là della propaganda di regime, lasciava tutto “esattamente come è sempre stato, come spiega la sorella di Grazia e Graziella“.

Subordinazione o coordinamento?

Siamo partiti dal fondo, ossia dalla domanda subordinata. Torniamo ora alla domanda principale, ossia la richiesta di accertare che il rapporto di lavoro dei rider dovesse a tutti gli effetti considerarsi un rapporto di lavoro subordinato, e non soltanto un rapporto di collaborazione al quale applicare la disciplina del lavoro subordinato.

Si tratta di verificare in che modo, concretamente, si svolge il lavoro. Ecco la ricostruzione che ha fatto il giudice, sulla base di quanto riferito dai testimoni: l’azienda pubblica ogni settimana sull’applicazione gli “slot”, ossia i turni, indicando il numero di rider necessari per coprirli. Sono i singoli lavoratori a dare la propria disponibilità per il turno prescelto (sono “liberi di candidarsi o non candidarsi per una specifica corsa”, prevedono i contratti), e a ricevere successivamente la conferma dell’assegnazione. All’inizio del turno tutti i rider devono recarsi in una delle zone di partenza predefinite e, attivata l’applicazione, accettare ed eseguire i singoli ordini di ritiro/consegna, confermandone sempre sull’applicazione il buon esito.

Alla luce di queste circostanze, che ha ritenuto indiscusse, il giudice di Torino ha negato la sussistenza della subordinazione affermando che

il rapporto di lavoro intercorso tra le parti era caratterizzato dal fatto che i ricorrenti non avevano l’obbligo di effettuare la prestazione lavorativa e il datore di lavoro non aveva l’obbligo di riceverla […] Questa caratteristica del rapporto di lavoro può essere considerata di per sé determinante ai fini di escludere la sottoposizione dei ricorrenti al potere direttivo e organizzativo del datore di lavoro perché è evidente che se il datore di lavoro non può pretendere dal lavoratore lo svolgimento della prestazione lavorativa non può neppure esercitare il potere direttivo e organizzativo.

La sentenza però va oltre: secondo il giudice, anche considerando solo i periodi di effettivo lavoro, il rapporto rimane una collaborazione e non diventa mai subordinato, perché Foodora

  • non impartisce ordini specifici
  • non esercita un controllo puntuale sulle modalità della prestazione
  • non esercita potere disciplinare sui rider

I lavoratori avevano sostenuto invece che l’imprenditore verificasse la presenza dei rider all’inizio del turno nei punti di partenza, ne controllasse percorsi, posizione e produttività tramite il GPS, inviando solleciti in caso di ritardo e li sanzionasse con l’esclusione temporanea o definitiva dai turni, oltre che con penali in caso di ritardo.

Secondo il giudice i testimoni avrebbero smentito alcune di queste circostanze, mentre altre (il controllo della posizione, i solleciti, la predisposizione di classifiche di produttività) sarebbero riconducibili soltanto a legittime forme di coordinamento, ben diverse dalla subordinazione.

Avendo respinto la domanda principale, cadono automaticamente quelle accessorie: pagamento delle differenze retributive e contributive; ripristino del rapporto cessato alla scadenza dei contratti, il 30.11.2016, e risarcimento del danno pari alle retribuzioni perdute da tale data fino alla ricostituzione del rapporto; risarcimento del danno per violazione della normativa sulla privacy; risarcimento del danno per violazione delle disposizioni in materia di sicurezza sul lavoro.

Conclusioni

È giusto criticare la sentenza di Torino nelle parti in cui è più discutibile, ma non è questo il punto principale della vicenda (tranne ovviamente che per i lavoratori direttamente coinvolti e i loro legali). L’ordinamento attuale avrebbe forse consentito di dare ragione ai rider: interpretando in modo più estensivo la norma del Jobs Act, o magari valorizzando l’articolo 36 della Costituzione, quello secondo cui “il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa“. Quest’ultimo precetto è stato a lungo applicato soltanto ai lavoratori subordinati, ma nulla di per sé vieta di estenderne la portata. Perciò non dubito che alcuni giudici avrebbero accolto le domande dei lavoratori di Foodora.

Una minoranza di giudici, però: il contesto complessivo, in questi ultimi anni, è quello di una progressiva diminuzione delle tutele, anche attraverso l’interpretazione sempre più restrittiva delle leggi. D’altra parte questo avviene da almeno trent’anni a tutti i livelli politici e sociali, e negli ultimi anni abbiamo assistito a un’accelerazione vertiginosa di questo processo con una successione di mostruose controriforme – culminate per il momento con il Jobs Act. Non c’è proprio ragione di pensare che nelle aule dei Tribunali le cose debbano o possano andare diversamente che negli altri contesti, al netto di qualche sentenza favorevole qua e là.

Il rimedio alla mancanza di tutele dei rider e di tutte le altre categorie di lavoratori sempre più precari, allora, va cercato altrove. Occorre un nuovo ordinamento, che abolisca i contratti precari e stabilisca per tutti i lavoratori, a prescindere dalla qualificazione del contratto, un salario minimo garantito, ferie e riposi, uguali tutele in caso di malattia, infortuni, licenziamento illegittimo, a un livello possibilmente superiore a quello che oggi è garantito ai lavoratori subordinati.

Leggi di questo tipo ovviamente non piovono dal cielo, ma possono essere conquistate soltanto con una stagione di lotte di massa da parte di tutta la classe lavoratrice per riconquistare i diritti perduti. Le esperienze embrionali di auto-organizzazione dei rider che si stanno sviluppando in molte città sono rondini incerte di una primavera che tarda ad arrivare. Ma non può piovere per sempre.

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