A proposito del reddito di cittadinanza

Il Centro Studi di Confindustria ha pubblicato l’altro ieri una nota su “REI e reddito di cittadinanza a confronto“: è l’ennesima dimostrazione dell’importanza cruciale del tema, che tocca profondamente la questione delle condizioni di vita di milioni di lavoratori e disoccupati ed è stato probabilmente decisivo nell’esito delle ultime elezioni. Del documento colpisce innanzitutto il tono, estremamente misurato, lontanissimo dal sarcasmo snob e anti-pauperista sbocciato in area PD in campagna elettorale e soprattutto all’indomani del voto, culminato con le bufale sulle code agli sportelli dell’INPS il giorno dopo le elezioni. I cialtroni del Partito Democratico hanno ormai dimostrato la loro totale estraneità, anche antropologica, rispetto agli interessi della classe lavoratrice italiana; i rappresentanti ufficiali del padronato non sono certo meno nemici di quegli interessi, ma hanno la necessità di comprendere a fondo il terreno sul quale si combatte la guerra di classe, e analizzare gli strumenti a disposizione per vincerla. Inoltre hanno molti meno problemi nel riconoscere nel M5S, che dal canto suo non vede l’ora, un possibile interlocutore politico.

Il documento esordisce con la precisazione, ineccepibile, che il “reddito di cittadinanza” del M5S non sia affatto un reddito di cittadinanza. In effetti, per reddito di cittadinanza si intende un importo che viene elargito dallo Stato a tutti i cittadini, indipendentemente dal loro reddito e illimitatamente. La proposta del M5S invece è un’integrazione dei redditi più bassi fino a un minimo garantito: una misura che di per sé non è affatto rivoluzionaria, se è vero che anche l’associazione degli industriali sostiene che una qualche forma di integrazione al reddito sia necessaria per ridurre la povertà dilagante. Del resto, si sa che, oltre un certo limite, la povertà è nemica degli affari. In estrema sintesi, la misura ideale secondo Confindustria è un sussidio che si collochi al punto giusto:

non troppo alto, per evitare il rischio di un ampio impatto negativo sull’offerta di lavoro e sull’occupazione regolare, ma non troppo basso, almeno tale da garantire “un’esistenza dignitosa”.

Ai due estremi, per l’associazione degli industriali, si collocano, in alto, la proposta del M5S, e in basso quella del “reddito di inclusione” (REI) varata in via sperimentale dal governo Gentiloni giusto a ridosso della campagna elettorale.

La proposta del M5S è contenuta in un disegno di legge del 2013, e in sintesi prevede che:

  • il sussidio è determinato in misura pari alla differenza tra il reddito del nucleo familiare e la soglia di povertà: cresce al crescere del numero di componenti del nucleo da un minimo di 780€ mensili (una sola persona): ad esempio per un nucleo di quattro persone l’importo massimo sarebbe di 1638€ mensili
  • ne sono beneficiari tutti i cittadini italiani e comunitari e le persone provenienti da Paesi con cui sono in essere convenzioni bilaterali; inoltre per le persone comprese tra 18 e 25 anni è previsto l’ulteriore requisito del possesso di una qualifica o diploma professionale o di un diploma di istruzione secondaria
  • dura per tutto il periodo in cui il beneficiario ha i requisiti per ottenerlo
  • è condizionato all’obbligo di:
    • fornire immediata disponibilità al lavoro presso i centri per l’impiego
    • iniziare immediatamente un “percorso di accompagnamento all’inserimento lavorativo
    • rendersi disponibile per la partecipazione a progetti di pubblica utilità gestiti dai comuni (per non più di otto ore settimanali)
    • accettare almeno una proposta di impiego su tre ritenuta congrua (retribuzione maggiore o uguale all’80% delle mansioni di provenienza; non distante più di 50km), e dopo un anno anche proposte non congrue

Per Confindustria, troppi soldi e troppo pochi paletti, a partire dalle verifiche sulle condizioni di accesso.

Il REI, invece, è una indennità riconosciuta ai nuclei familiari con un reddito complessivo inferiore a 6.000 Euro ed è incompatibile con qualsiasi altro ammortizzatore sociale. L’importo mensile massimo è di 187,50 Euro nel caso di nuclei composti da una sola persona, a salire fino a 539,82 Euro per nuclei familiari di sei o più persone. Anche a pieno regime (ma non si sa se e quando sarà a pieno regime), si tratta in sostanza di un’elemosina. Lo riconosce tra le righe anche Confindustria, che pure ne auspica un’estensione, e quindi un maggiore finanziamento. Curiosamente, sembra meno fredda di quella dell’associazione industriali nei confronti del REI la posizione della CGIL, che nella bozza del suo documento congressuale lo definisce uno strumento universale di contrasto alla povertà, pur ovviamente invocandone un ampliamento.

L’importo del sussidio chiaramente è uno dei punti fondamentali per valutare, dal punto di vista degli interessi della classe lavoratrice, le proposte di reddito minimo garantito. Sotto questo aspetto il REI si squalifica fin da principio e non vale neppure la pena di parlarne. La proposta del M5S invece da questo punto di vista è senz’altro dignitosa, e non a caso ha riscosso molto successo specialmente nelle aree del paese soffocate da una disoccupazione di massa. Ma ancora più importante dell’entità del reddito, è la questione di dove prendere i soldi. Nel progetto di legge grillino, i 17 miliardi all’anno (sono il doppio per il PD e per l’INPS) dovrebbero essere ricavati da fonti di ogni genere, alcuni anche progressisti (l’8×1000 di chi non indica alcuna opzione, sottratto così in larga parte alla Chiesa cattolica, tagli alle spese militari,  una sia pur minima tassazione dei grandi patrimoni), altri molto discutibili come la tassazione sul gioco d’azzardo (così indirettamente incentivato). In generale, però, si tratta di briciole, al pari del taglio delle spese della pubblica amministrazione. Ma soprattutto, quasi tutte le misure proposte per finanziare il “reddito di cittadinanza” non sono altro che un (relativamente misero) trasferimento da una voce all’altra dei capitoli di spesa dello Stato, e non una redistribuzione dei redditi tra classe imprenditoriale e classe lavoratrice.

Tutta la proposta del M5S in sostanza si colloca pienamente all’interno del sistema e delle sue compatibilità: la lotta alla povertà non è un fine ma un mezzo per il vero scopo, che è aiutare il padronato italiano ampliando il mercato interno, creando ulteriore concorrenza al ribasso tra i lavoratori (con l’obbligo di lavorare gratis e di accettare dopo un certo periodo qualsiasi proposta di lavoro). Ecco perché Confindustria, pur criticando la forma, è pienamente d’accordo con la sostanza di un’integrazione ai redditi inferiori. Ma se questi sono i presupposti, è inevitabile il fallimento di questa proposta anche nei suoi obiettivi minimi: se ci si pone all’interno delle compatibilità di sistema, accontentandosi di quello che il padronato è disposto a concedere senza intaccare i suoi interessi, allora tutto ciò che si potrà ottenere sarà un’elemosina magari leggermente più sostanziosa di quella garantita oggi dal REI, ma soggetta a vincoli stringenti e soprattutto dipendente dalle esigenze del mercato, non da quelle dei lavoratori e delle loro famiglie. La prospettiva del M5S è quella di un sistema in cui la lotta di classe sia abolita perché bene o male viene concesso quel minimo che basta a non morire di fame, in cambio della disponibilità a sottostare a qualsiasi ricatto.

L’unico modo per combattere efficacemente la povertà e la disoccupazione di massa è rovesciare la prospettiva e il tavolo. Il programma della Sinistra Rivoluzionaria contiene la proposta di un salario minimo garantito ai disoccupati di circa 1.100 Euro mensili (l’80% di un salario minimo garantito, per tutti i lavoratori, di 1.400 Euro al mese). Ma la vera differenza rispetto al “reddito di cittadinanza” non è l’entità dell’importo, ma il contesto in cui si colloca questa proposta, che è radicalmente opposto. Nella nostra prospettiva, il salario minimo garantito serve proprio a impedire ricatti e concorrenza al ribasso: non accetto di essere pagato per meno di quanto prenderei senza lavorare, non accetto di rinunziare a dei diritti per paura del posto di lavoro. È un processo virtuoso che collega le lotte dei lavoratori con quelle dei disoccupati, e che presuppone la lotta di classe. Un processo non può essere separato da un processo radicale di trasformazione della società, che prevede la nazionalizzazione del sistema produttivo e del sistema bancario per porli sotto il diretto controllo della classe lavoratrice e farli funzionare nell’interesse di tutta la società, e non solo del padronato.

È una proposta rivoluzionaria, ma di sicuro meno utopistica che pensare di risolvere il problema della povertà nel sistema economico attuale.

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