Michael Moore e l’illusione del riformismo

Michael Moore

Ho visto al cinema il nuovo documentario di Michael Moore, Where to invade next. Nel film, l’autore viaggia di Paese in Paese, in Europa ma non solo, “invadendoli” con tanto di bandiera a stelle e strisce alla ricerca di caratteristiche economiche e sociali virtuose da “saccheggiare” e riportare negli USA.

L’idea è interessante e Moore è bravissimo nel sottolineare la contraddizione stridente tra la ricchezza del Paese più potente del pianeta e la vera e propria barbarie economica, sociale e culturale in cui vive gran parte dei suoi abitanti.

È efficacissima, ad esempio la giustapposizione tra i filmati di abusi dei poliziotti americani contro i carcerati e la visita in un penitenziario di massima sicurezza in Norvegia, dove persino un mostro come Anders Breivik viene custodito secondo principi finalizzati unicamente al recupero e al reinserimento, e non alla punizione fine a se stessa (ed è toccante l’intervista di Moore al padre di una delle vittime del carnefice neonazista, che si dice assolutamente d’accordo con questo modello carcerario).

Allo stesso modo colpisce il confronto tra le dimostrazioni dei fanatici anti-abortisti statunitensi e la descrizione della condizione femminile, da decenni enormemente più avanzata, in Tunisia.

Dove la tesi di Moore appare debole, invece, è nei capitoli dedicati al mondo del lavoro. Due sono in particolare le “invasioni” dell’autore su questo terreno, e la prima, che addirittura apre il documentario, è in Italia.

Nel Bel Paese il regista incontra una coppia di lavoratori, un poliziotto e un’impiegata di alto livello assunta a tempo indeterminato, i padroni di un’importante azienda tessile toscana (“qui si producono abiti per Versace, Valentino e Dolce e Gabbana“) e l’amministratore delegato della Ducati: situazioni ideali, (temporaneamente) pacificate, in cui è possibile sottolineare i benefici del diritto alle ferie, alla tredicesima, al congedo di maternità – tutti previsti dalla legge in Italia, mentre negli USA esistono, parzialmente, solo nelle poche singole aziende che munificamente li riconoscono.

Moore è attento a spiegare che non dappertutto sono rose e fiori neppure in Italia, ma che il suo scopo è scegliere il meglio, non il peggio, come modello da importare negli Stati Uniti. E fugacemente compare anche un sindacalista della Ducati, che mentre canta le lodi della mensa aziendale spiega che tutto questo è stato ottenuto solo grazie a decenni di lotte feroci.

È giusto sottolineare che per ottenere dei diritti è necessario lottare, anche se per la verità l’enfasi del documentario è più sulla disposizione illuminata dei padroni italiani, ma comunque non basta.

L’idea che traspare dal film è che i problemi sociali possano essere risolti, sul terreno del lavoro, con un po’ meno avidità da parte dei padroni e un po’ più diritti per i lavoratori. Anzi, a più riprese gli amministratori intervistati da Moore spiegano che proprio grazie a questi diritti la produttività del lavoro è maggiore, e con essa i profitti. Insomma, è una questione di buon senso e si tratta in sostanza di remare nella stessa direzione perché conviene a tutti.

Non è un’idea nuova, naturalmente, è il cavallo di battaglia di un secolo e mezzo di riformismo, ed è sicuramente confortante pensare che sia sufficiente convincere gli imprenditori che farebbero bene a pagare salari maggiori in cambio di un po’ meno lavoro, per aggiustare tutto. Peccato che non funzioni affatto così, e in questi ultimi anni dovrebbe essere diventato chiaro a tutti.

Un esempio interessante di come funziona il sistema economico di mercato me lo fornì direttamente, qualche anno fa, la vicenda della Elnagh di Trivolzio, vicino a Pavia, chiusa nonostante un bilancio in attivo per consentire al fondo di investimento che ne controllava la proprietà di investire i soldi dei propri clienti altrove, dove il margine di redditività era superiore.

Non è questione di avidità individuale: è la necessità di massimizzare il profitto, pena l’espulsione dal sistema produttivo, a imporre agli imprenditori di massimizzare la produttività del lavoro e dunque lo sfruttamento. Non a caso, specialmente oggi, la realtà del lavoro anche in Italia somiglia molto di più a quella descritta da Charlie Chaplin all’inizio di Tempi Moderni che a quella rappresentata da Michael Moore.

Le aziende che producono beni di lusso, dove il margine di profitto è tendenzialmente maggiore e meno condizionato dalla crisi economica, sono sicuramente meno colpite da questa dinamica, ma non ne sono comunque esenti. Proprio alla Ducati, per fare un piccolo esempio, si discute da anni, tra minacce e scioperi, della possibilità di eliminare le due pause di 5 minuti prima di pranzo e a fine turno tradizionalmente previste per lavarsi le mani, in modo da aumentare di 10 minuti al giorno il tempo di lavoro effettivo. E, per restare nel settore dei motori più prestigiosi, alla Maserati sono stati appena annunciati 120 esuberi da gennaio dell’anno prossimo.

Dove Michael Moore si sbaglia, dunque, è nel pensare che le condizioni di sfruttamento più o meno disumano in cui vivono decine di milioni di lavoratori americani (e italiani, tedeschi, francesi, etc.) siano un incidente di percorso, eliminabile con un po’ di buona volontà. Sono invece la pietra angolare su cui è costruito l’intero sistema economico mondiale, e l’unico modo per rimuoverle è far crollare questo sistema.

Lo stanno capendo in tanti, negli USA, tra quelli che in questi mesi votano per Bernie Sanders alle primarie democratiche, speriamo lo capisca anche Michael Moore per il prossimo film.

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