Elnagh: storia di ordinario capitalismo

Questa mattina fuori dai cancelli della Elnagh, una fabbrica che produce camper a Trivolzio, vicino a Pavia, erano radunati una cinquantina di lavoratori e attivisti. Avevano eretto una barricata di fortuna per impedire che dallo stabilimento, che presidiano da ormai due settimane, venissero portati via alcuni dei circa duecento veicoli già assemblati: a quanto pare sono stati già venduti e sono l’unico oggetto nello stabilimento che abbia un qualche valore per il padrone.

La storia dell’azienda merita qualche riga. Fondata nel 1950, la Elnagh è uno dei più antichi e importanti produttori di camper in Italia: i suoi operai hanno un bagaglio di conoscenze e abilità tali da farne quasi degli artigiani, capaci però ancora in quest’ultimo periodo di sfornare una decina di veicoli al giorno pur lavorando a orario ridotto. In passato hanno condotto lotte sindacali importanti, tanto da aver ottenuto la quattordicesima (non prevista dal loro contratto nazionale, il metalmeccanico) e soprattutto la stabilizzazione automatica di tutti i precari.

Circa dieci anni fa, l’azienda è stata acquisita dal Gruppo SEA che, come recita il sito ufficiale, “con 300 milioni di fatturato, oltre 1000 dipendenti, è il piu’ grande produttore italiano, il terzo in europa, nel settore del turismo itinerante.

Nell’ultimo anno sono cominciati i guai. Le commesse non mancano ma la produzione viene gradualmente spostata da Trivolzio agli altri stabilimenti del gruppo in Val d’Elsa (Toscana) e a S. Giustino (al confine tra Umbria e Toscana), dove il costo del lavoro è inferiore per la minore anzianità e combattività dei dipendenti e per l’utilizzo, specialmente nella fabbrica di S. Giustino, di manodopera precaria.

Due settimane fa tutti i 130 lavoratori dello stabilimento, salvo qualche impiegato addetto alla contabilità, ricevono la comunicazione del licenziamento, che avrà efficacia al termine dei 75 giorni di consultazioni obbligatorie. Fino alla seconda metà di febbraio riceveranno lo stipendio, ma poi la fabbrica chiuderà definitivamente i battenti. Il padrone, tale Maurizio De Costanzo accolto con una salva di meritatissimi insulti al tentativo di presentarsi in azienda nei giorni successivi all’annuncio, rifiuta ogni trattativa fino a quando non sarà levato il presidio: vuole poter accedere ai camper immagazzinati nel parcheggio dello stabilimento, un parco di circa 200 veicoli per un valore di non meno di mezzo milione di Euro. L’unica proposta “conciliativa” avanzata è quella di trasformare la fabbrica in… show room: proposta immediatamente respinta al mittente dal momento che a conservare il posto sarebbero non più di una trentina di persone e tra questi, prevedibilmente, quasi nessuno degli operai.

Il presidio al momento resiste e merita tutta la solidarietà possibile. I lavoratori sono pronti a resistere a ogni tentativo del padrone di portar via i camper, nonostante i consigli pelosi di certi funzionari sindacali (della CISL, manco a dirlo) che suggeriscono di lasciar portare fuori i mezzi per poter intavolare una trattativa: come se il datore di lavoro avesse qualsiasi interesse a trattare una volta recuperato il bottino che gli preme avere!

Ma come si è arrivati a questo punto? Fatte due ricerche in rete, la spiegazione è abbastanza semplice. Il fatto è che il Gruppo SEA, che ha comprato la Elnagh da circa un anno, è a sua volta controllato, dal 2005, da una finanziaria, la Bridgepoint, che si definisce “uno dei principali gruppi internazionali di private equity concentrato nell’acquisizione di aziende leader di mercato in cui possa essere creato valore significativo sotto la proprietà di Bridgepoint“. Ecco che cosa fa Bridgepoint, sempre secondo quanto si legge nel loro sito: “Cerchiamo di investire in attività che combinino la solidità esistente (in termini di quota di mercato, diversificazione, solidità del marchio, qualità dei prodotti o servizi e gestione di primo livello) con la capacità di ulteriore rafforzamento tramite l’espansione tra i confini, miglioramento operativo, strategie di reindirizzo, e acquisizioni aggiuntive.” La sottolineatura è mia: si tratta proprio del tipo di misure che stanno costando il lavoro ai 130 dipendenti di Trivolzio. Ma è precisamente grazie a questo tipo di operazioni che Bridgepoint ha raccolto finora “oltre €12 miliardi di capitale affidatoci e siamo orgogliosi di contare molte delle istituzioni leader mondiali nella nostra rosa di investitori.” Sono orgogliosi, gli stronzi.

Lo schema, insomma, è questo: il fondo di investimento compra pacchetti azionari di controllo di altre società, come il Gruppo SEA; a quel punto utilizza il controllo così acquisito per massimizzare i profitti che se ne possono trarre, in modo da far lievitare il valore delle azioni, in modo da poter distribuire la rendita tra gli investitori che aderiscono al fondo e poterci fare su anche un po’ di cresta. Non è che si debba essere dei grandi maghi della finanza per far questo: il modo più semplice, specialmente in periodi di crisi, è concentrare la produzione sugli stabilimenti meno costosi e chiudere gli altri. Al fondo di investimento e agli investitori non interessa affatto se il prezzo della loro rendita è la vita di qualche centinaio (considerando la sola Elnagh: ma quante ce ne sono al mondo?) di persone. Si può biasimarli?

Alla fine, per dirla tutta, non più di tanto: in fondo questa è precisamente l’essenza del sistema capitalista. Se non fosse Bridgepoint o il Gruppo SEA, sarebbe necessariamente qualcun altro a occupare esattamente lo stesso spazio.

Occorre allora cambiare del tutto prospettiva e chiedersi se sia accettabile socialmente un sistema economico che ha come pietra angolare – non certo come sottoprodotto marginale – lo sfruttamento e la miseria di milioni di persone. Il caso della Elnagh di Trivolzio merita di essere conosciuto anche per questo motivo, perché rappresenta un esempio praticamente puro del funzionamento normale del sistema economico in cui viviamo. Siamo davvero disposti a continuare ad accettarlo come l’unico possibile?

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3 comments

  1. Domanda: che ruolo gioca, in tutto questo il sindacato?
    La prima cosa che mi sono chiesta leggendo, è stata se ci siano o ci siano stati contatti fra gli operai Elnagh e i loro colleghi nei due stabilimenti dove è stata trasferita la produzione.
    Sarebbe possibile, a queste società finanziarie, fare queste operazioni, se vi fosse un avvicinamento e una più forte intesa fra tutti questi lavoratori?
    Pari lavoro, pari diritti.
    O tutti fuori.
    Voglio vedere con cosa giocano queste fameliche jene.
    Perché, se è vero che il precario è più esposto al ricatto e quindi è più debole nel porre condizioni, non capisco come mai chi ha esperienza di lotte che hanno portato a risultati concreti e importanti (come gli operai Elnagh) non mette questa forza e questa esperienza in comune con chi – più debole e più ricattabile – diventa, suo malgrado – un tassello fondamentale per la riuscita di queste speculazioni.
    Il sindacato, che dovrebbe diventare il primo ponte di collegamento fra queste diverse realtà che entrano in conflitto (precari contro garantiti, che poi garantiti non lo sono mai), è assente. E quando c’è, ne fa una mera questione di categorie di lavoratori. Non agisce per facilitare una relazione dialettica fra gli operai, che devono sentirsi tutti sulla stessa barca..
    Insomma, credo sia ora di smettere di far le barricate ognuno per sé.
    Tutto ciò che si sta muovendo, nel mondo del lavoro, riguarda tutti.
    Sempre.
    Non importa cosa fai ora e se sei “sicuro” o precario.
    Insieme.
    O si perde tutto.
    Come già mi pare stia avvenendo.

  2. A quanto sembra, non ci sono contatti tra i dipendenti dei vari stabilimenti.
    Va considerato anche che Elnagh è entrata nel gruppo degli altri due da meno di un anno. Certo, sarebbe fondamentale che si sviluppasse la solidarietà degli altri due impianti, oltre a quella delle altre fabbriche della zona di Trivolzio. Da un lato, però, in questo momento mi sembra prevalga la logica del “mors tua vita mea”: logica sbagliata ovviamente, ma anche comprensibile in questa fase di crisi. Dall’altro lato, va detto che se un limite si può riscontrare nell’azione dei lavoratori della Elnagh in questo momento, questo risiede proprio nella mancanza di una prospettiva verso l’esterno: come capitato in altre realtà di lotta, il centro di tutto è il presidio, tutti quelli che portano solidarietà sono ben accetti ma da lì “non si esce”.
    Non ha alcun senso però colpevolizzare i lavoratori di nessuno dei tre impianti – tantomeno ovviamente quelli della Elnagh! È chiaro però che il problema della Elnagh non potrà mai essere risolto in modo soddisfacente al livello di quell’unico impianto, senza coinvolgere i lavoratori degli altri stabilimenti e tutti quelli del distretto industriale di Trivolzio, di Pavia, della Lombardia.
    Quanto al sindacato, hai senz’altro ragione sul ruolo che dovrebbe avere, ma senza voler “giustificare” nessuno va anche considerato che qui ci sono oggettive difficoltà: tanto per cominciare gli altri due stabilimenti, oltre che distanti geograficamente, applicano a quanto mi risulta un altro contratto nazionale; da quanto dicono gli operai di Trivolzio, inoltre, uno è molto recente e quindi poco sindacalizzato, l’altro utilizza molta manodopera precaria con la conseguente difficoltà di organizzarsi.
    Alla fine dei conti, il processo di unificazione e di solidarietà non può sorgere se non spontaneamente, non può crearlo il sindacato se non si accende una scintilla. Purtroppo è vero che senza la solidarietà tra i lavoratori dei diversi stabilimenti e delle diverse realtà il padrone finirà per ottenere quello che vuole.

  3. Sì,è sattamente questo il punto:”senza la solidarietà tra i lavoratori dei diversi stabilimenti e delle diverse realtà il padrone finirà per ottenere quello che vuole.”
    E non pensavo al solo caso Elnagh, ma in generale.
    Ciò che ha reso debole anche il sindacato è proprio la frantumazione dei contratti, i aticipi; e ancora peggio faranno i nuovi contratti, perché rompono definitivamente ogni possibilità di contatto fra i lavoratori e ogni fabbrica, ogni ufficio, ogni categoria finirà per sentirsi isolata e vedere ogni altro lavoratore come il nemico.
    Ma il nemico è chi ha voluto e premuto perché si creassero queste condizioni.
    Rotta la solidarietà fra lavoratori, mettere precari contro garantiti, è la fine di ogni possibile capacità di reazione.
    E questo, i primi a capirlo, avrebbero dovuto essere i lavoratori stessi, di ogni categoria.
    E i sindacati, che non sanno più creare unità.
    Insomma, dobbiamo costruire ponti, unire le diverse realtà e saper far vedere loro come solo se c’è uno stesso obiettivo c’è ancora qualche speranza.

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