Un applauso per l’assassino

Pochi giorni fa, gli imprenditori riuniti all’Assise degli industriali a Bergamo hanno accolto tra gli applausi l’ingresso in sala di Harald Espenhahn, amministratore delegato di Thyssen-Krupp condannato a 16 anni e mezzo di reclusione per omicidio volontario. Festeggiato come un eroe.

Il quadro di un amministratore delegato di una società che decide di sacrificare la vita dei suoi dipendenti per risparmiare del denaro è impensabile”: così ne aveva parlato uno degli avvocati prima della sentenza.

Dopo oltre due anni e quasi cento udienze, la Corte di Assise di Torino ha stabilito invece che il quadro non solo è pensabile, ma corrisponde anche alla verità: i vertici di Thyssen-Krupp non si sono limitati a omettere le adeguate misure di sicurezza nella propria fabbrica per disattenzione o incuria, ma hanno consapevolmente deciso di mettere a rischio la vita dei propri dipendenti pur di non “sprecare” denaro in una linea di produzione che sarebbe stata di lì a poco trasferita a Terni. Per questo motivo sono morti i sette operai rimasti uccisi nel rogo del 7 dicembre 2007.

Si è già scritto dell’importanza della sentenza sul piano giuridico. Ma, anche al di là della stessa sanzione (che speriamo venga confermata in appello e in Cassazione), il grande merito del processo Thyssen-Krupp sta probabilmente nell’aver messo a nudo, da un lato, la disgustosa arroganza di un padronato abituato a non dover rendere conto a nessuno delle proprie azioni e, dall’altro, la vera dinamica di sfruttamento selvaggio e indiscriminato su cui si basa il capitalismo in questa sua fase di marcia decadenza.

Tutto l’andamento del processo, fin dalle sue prime fasi, è estremamente emblematico: dalla richiesta di escludere da ogni risarcimento operai, sindacati e istituzioni cittadine, al tentativo ripetuto di far saltare l’intero processo accampando la scusa (pretestuosa e dimostratasi falsa) che gli imputati tedeschi non conoscessero l’italiano, al tentativo scandaloso di “comprare” alcuni testimoni – per i quali è tuttora in corso un separato processo per falsa testimonianza. La stessa strategia difensiva, del resto, è stata in sostanza quella di far ricadere la colpa dell’incidente sugli operai. Il tutto mentre gli operai, quelli sopravvissuti, venivano messi in Cassa Integrazione e discriminati nel ricollocamento, a meno che non accettassero di rinunciare a costituirsi parte civile.

Il vero quadro emerso nel corso del processo, che ha portato alla sentenza a suo modo storica, è quello di una fabbrica in stato di abbandono a seguito della decisione – presa già due anni prima del rogo fatale – di spostare gli impianti presso la sede di Terni e di rimandare a dopo il trasferimento gli interventi sui sistemi di sicurezza, contando nel frattempo sulla compiacenza degli ispettori ASL, le cui visite erano annunciate in anticipo in modo da consentire di nascondere la polvere sotto il tappeto. Il costo degli interventi era stato quantificato dall’assicurazione dell’azienda in circa 20.000 € per l’adeguamento degli impianti anti-incendio: la vita degli operai evidentemente valeva meno. Il tutto, in una fabbrica in cui guasti e incendi erano letteralmente all’ordine del giorno, in cui il personale veniva ruotato nei vari reparti impedendo la formazione di una adeguata professionalità, in cui le ultime assunzioni erano precarie, al più semestrali.

Le reazioni dopo la pubblicazione della sentenza sono l’ulteriore conferma che tutto questo è sistema, e non anomalia. Alla notizia della condanna, i vertici della Thyssen hanno ripetutamente minacciato di portare via tutti gli impianti dall’Italia, a dimostrazione del fatto che non sono disposti in nessun caso a spendere quel che serve per evitare nuove tragedie, e che il profitto, dichiaratamente unico scopo dell’impresa, è incompatibile con la sicurezza dei lavoratori.

L’applauso di Confindustria a Espenhahn testimonia del resto che la Thyssen non è certo un caso isolato, ma semmai un esempio da seguire per l’imprenditoria nostrana. E poco importano le reticenti scuse pervenute soltanto oggi. Così come pochissimo importa lo sdegno ipocrita espresso da Roberto Calderoli, ministro di un Governo che da anni cerca di sabotare il Testo Unico sulla Sicurezza (nato proprio sulle ceneri del rogo alla Thyssen negli ultimi mesi del governo precedente) e che con le leggi sul “processo breve” ha provato a impedire pure questa sentenza.

Che lo sdegno per questi schifosi e il loro sistema marcio ci aiuti a spazzarli via.

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One comment

  1. I padroni stanno tirando troppo la corda,speriamo che si sfilacci al più presto…
    Saluti
    Massimo Tomasi

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