Marchionne fottiti

Un paio di sere fa ho avuto la fortuna e il privilegio (eravamo una cinquantina di persone) di assistere a uno spettacolo straordinario, ideato e realizzato dal gruppo pavese Senza Pazienza Circus – accidenti, non hanno un sito! – e ispirato dallo splendido pezzo di Alessandra Guetta apparso alcuni mesi fa su Carmilla On line: “Marchionne fottiti”, appunto.

Straordinario, sì, e non lo dico per piaggeria o perché alcuni degli interpreti sono amici. Una successione di testi recitati, canzoni e spezzoni video originalmente distribuiti lungo un unico filo rosso: la necessità di riconquistare la propria dignità di persone, che nel lavoro deve trovare un fondamento e non un ostacolo.

Dovrebbe essere un principio scontato, acquisito e intangibile, il fondamento stesso della nostra civiltà. Eppure abbiamo sotto gli occhi innumerevoli prove di quanto questo principio sia calpestato ogni giorno, offeso e dimenticato. Il referendum-ricatto imposto dalla FIAT ai suoi operai, a Pomigliano prima e poi a Mirafiori, è il punto di partenza per una riflessione molto più ampia sulla condizione di chi lavora. Si comincia da qui, spiegando

perché spero che quel “Marchionne fottiti” non sia né una riflessione né un augurio, ma una risposta. Perché dobbiamo renderci conto che se si comincia a cedere sui diritti, o sui dieci minuti di pausa, poi sarà un torrente che dilaverà tutto quello che altri hanno conquistato con fatica, lotte e sangue. Non solo per loro, ma anche per noi.

“Noi”, cioè tutti, operai metalmeccanici e precari, giovani e meno giovani. Tutti coinvolti nella stessa lotta che è sempre la stessa da sempre: la lotta tra chi lavora per qualcun altro e il qualcun altro che si arricchisce a spese di chi lavora per lui.

Tutta la scaletta delle canzoni e delle letture affronta questo tema sotto aspetti diversi e racconta tante cose, tutte importanti: che i soprusi di oggi sono gli stessi di ieri, e la presunta “modernità” in nome della quale i lavoratori dovrebbero accettare sacrifici sempre maggiori in realtà è soltanto una maschera dietro cui si nasconde sempre lo stesso identico volto, quello famelico e folle del capitalismo, sempre la stessa forza motrice, l’avidità degli sfruttatori.

Le canzoni di Gaber e di Jannacci, la struggente Nina, ti te ricordi, vecchie di mezzo secolo o quasi, descrivono con precisione inquietante la quotidianità dell’operaio alla catena di montaggio e quella del precario. Altrettanto efficaci sono i testi scelti, su tutti il diario di un lavoratore flessibili ritrovato e letto dagli storici del futuro: la sottrazione di diritti in nome della produttività conduce ineluttabilmente alla caduta della civiltà. Un modo come un altro per esprimere il concetto di Rosa Luxemburg, socialismo o barbarie.

Il concetto che più di ogni altro va sottolineato è che non esiste differenza tra “stabili” e “precari”: senza diritti, precari lo siamo tutti. La barriera tra chi è protetto dall’ombrello dello Statuto dei lavoratori e chi no è totalmente artificiale, costruita dai padroni e da chi li rappresenta in ossequio a un principio vecchio come il mondo: divide et impera. Ancora il Diario lo racconta: “Una volta abolito lo Statuto dei lavoratori, il contratto a tempo indeterminato serve soltanto a far decidere a noi quando possiamo licenziarti“. Del resto è già così per tutti i lavoratori a tempo indeterminato che lavorano in piccole aziende.

Se vogliamo uscire dal vicolo cieco in cui ci hanno cacciato decenni di sconfitte, spesso indorate da sindacati e governi di “centro-sinistra” compiacenti – i peggiori nemici, come già ci avvertiva Blanqui a metà Ottocento! – quel Marchionne fottiti deve staccarsi dal muro di Mirafiori e diventare pratica di resistenza, di lotta di tutti i lavoratori senza distinzione di contratto e di mansioni, da quelli alla catena di montaggio a quelli al telefono del call centre: lotta comune contro un nemico comune. Anche a partire da un palcoscenico.

Spero sinceramente che lo spettacolo dei Senza Pazienza Circus verrà replicato, più e più volte e davanti a platee numerose: ne vale davvero la pena.

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