Eddington, Bugonia e Una battaglia dopo l’altra

Se c’è un tratto che caratterizza quest’epoca, è l’ampiezza senza precedenti delle contraddizioni che la attraversano.

In ultima analisi, queste contraddizioni sono definite dall’incredibile concentrazione della ricchezza del pianeta nella mani di pochissimi individui, a spese della maggior parte del resto dell’umanità: l’ingiustizia e la disuguaglianza crescenti, che sono il corollario di questo fatto, sono percepiti da tutti e sono all’origine della profonda e generalizzata sfiducia verso tutte le istituzioni che, invece di combatterle, le difendono e le alimentano.

Un’ulteriore conseguenza di questa situazione è l’impossibilità di interpretarla attraverso gli schemi che la cultura mainstream ha costruito nella seconda metà del Novecento. Che è anche impossibilità di raccontarla attraverso le storie che ci hanno accompagnato per oltre mezzo secolo.

Prendiamo il cinema. In quest’ultimo scorcio d’anno è difficile trovare un film che, in un modo o nell’altro, non si confronti in modo esplicito con la nuova realtà.

Perfino i franchise dei supereroi hanno dovuto prendere atto di questa trasformazione, instillando il dubbio che le istituzioni “democratiche” che ci governano siano il vero cattivo della storia, non per via di qualche “infiltrazione” malvagia che può essere svelata e sconfitta (come accadeva ad esempio in Captain America – The Winter Soldier), ma perché è proprio nella loro natura tutelare i ricchi e i potenti a scapito dei deboli.

Più o meno questa è la vicenda dell’ultimo Superman, in cui la lacerazione del tessuto sociale è rappresentata anche letteralmente dallo squarcio che minaccia di inghiottire New York.

Ma ovviamente è nel cinema d’autore che il nuovo paradigma – anzi, l’assenza di un paradigma – trova la sua rappresentazione più evidente.

Tre film, usciti nelle sale in rapida successione lo scorso autunno, mi hanno colpito particolarmente per il modo, per molti versi simile, in cui raccontano e cercano di interpretare il presente, ma anche per le conclusioni assai diverse a cui giunge la loro riflessione: Eddington di Ari Aster, Bugonia di Yorgos Lanthimos e Una battaglia dopo l’altra di Paul Thomas Anderson.

Soprattutto fra i primi due film, le somiglianze sono sorprendenti.

Simile lo sfondo: le zone rurali del profondo sud degli Stati Uniti (New Mexico, Georgia), immediatamente riconoscibili dai colori brillanti della fotografia prima ancora che dai dialoghi.

La scelta non è casuale: si tratta dell’ambiente in cui, quantomeno nell’immaginario degli “intellettuali benpensanti” del mondo occidentale, proliferano quelle teorie del complotto che  sono al centro di entrambe le vicende.

In estrema sintesi, sia il film di Aster che quello di Lanthimos raccontano la reazione confusa di persone “deboli” contro i soprusi di entità potenti e contro le istituzioni compiacenti che invece di contrastarle le proteggono.

In Eddington il conflitto che muove in prima battuta il protagonista, lo sceriffo Joe Cross, è quello con il sindaco della cittadina, che ritiene non a torto una marionetta di vari poteri forti: su tutti la misteriosa multinazionale Solid Gold Magikarp che, in combutta con il governatore dello stato, vuole costruire nei dintorni un data center che consumerà e inquinerà la poca acqua disponibile.

Il protagonista di Bugonia, Teddy Gantz, ha avuto la vita distrutta dal colosso farmaceutico Auxolith che gli ha portato via la madre, e dal babysitter che lo ha violentato da piccolo e che oggi è un poliziotto: nuovamente, il potere economico e quello istituzionale a braccetto.

Entrambi i personaggi percepiscono l’ingiustizia subita ma sono totalmente incapaci di “metterla a fuoco” e affrontarla in modo razionale: da qui la loro caduta (progressiva nel caso di Joe Cross, già pienamente compiuta per Teddy Gantz) nelle peggiori teorie del complotto, e la scelta da parte dei registi di raccontare le due storie con un registro più grottesco che drammatico, che peraltro costituisce la cifra stilistica di entrambi.

Va a credito di Aster e Lanthimos il fatto che entrambi rappresentino le ingiustizie che muovono i loro personaggi come assolutamente reali: non ci sono dubbi che la Solid Gold Magikarp e il suo data center energivoro siano nemici dell’interesse collettivo; non c’è dubbio che il sindaco Ted Garcia sia corrotto e al soldo della multinazionale. Allo stesso modo è immediatamente e inequivocabilmente chiaro che la Auxolith sia davvero colpevole di tutti i danni provocati ai pazienti e che la sua amministratrice Michelle Fuller sia una perfida profittatrice.

D’altra parte queste ingiustizie non sono rappresentate come un mero accidente, ma come l’espressione di un intero sistema sociale ed economico irrimediabilmente marcio, e che non è in alcun modo riformabile.

In Bugonia neppure compaiono personaggi che non siano le vittime o i loro carnefici – e anzi i protagonisti sono tutti sia vittime che carnefici, in un ribaltamento dei ruoli che è in qualche misura catartico.

In Eddington, le proteste del movimento Black lives matter compaiono più come un pretesto narrativo che come un tentativo di esplorare una reale alternativa al sistema. I giovani attivisti, nella rappresentazione di Ari Aster, sono alienati dalla realtà tanto quanto lo sceriffo Joe Cross, solo più ingenui, e finiscono anch’essi inesorabilmente vittime della violenza del sistema, non avendo sufficiente forza o spietatezza per diventare carnefici.

Per entrambi gli autori, insomma, il declino della società è ben oltre il punto di non ritorno. Per questo, in fondo, il loro sguardo verso i rispettivi protagonisti, Joe Cross e Teddy Gantz, non è quello sarcastico riservato da Adam McKay ai personaggi di Don’t Look Up, bensì uno sguardo in un certo senso comprensivo, se non proprio empatico.

Il fatto è che, anche per loro, non c’è comunque soluzione alla barbarie e nella migliore delle ipotesi, quella descritta da Lanthimos, l’umanità è ben avviata a una meritata estinzione.

Anche Una battaglia dopo l’altra racconta la profonda ingiustizia di un sistema in cui i privilegi di pochi ricchi bianchi sono basati sulla segregazione e sulla repressione dei migranti.

Anderson descrive nel lungo prologo il fallimento della lotta per rovesciare questo sistema, portata avanti con metodi terroristici dal gruppo French 75. Questo fallimento ha i volti dell’individualista Perfidia, passata in un amen dall’estremismo più feroce alla collaborazione con le autorità e al tradimento dei compagni, e dello sconfitto Pat, reduce paranoico, sbandato e dipendente da alcool e droghe, ormai incapace perfino di ricordare le vecchie parole d’ordine.

Chi non dimentica è il sistema, che anche a distanza di decenni perseguita ogni residua traccia dei vecchi nemici, che soffoca attivamente ogni tentativo di stabilire un modello di società alternativo, come quello della “città santuario” di Baktan Cross.

Apparentemente non c’è una grande differenza tra i due reduci dei French 75 nel film di Anderson e i protagonisti dei film di Aster e Lanthimos, tutti schiacciati dalla violenza di un sistema ingiusto ma troppo forte per essere sconfitto, di fronte al quale si può soltanto soccombere o allinearsi.

Eppure il messaggio di Una battaglia dopo l’altra è profondamente diverso, più profondo e più ricco rispetto a quello degli altri due film. Se è vero che una generazione, quella di Pat e di Perfidia, è stata sconfitta, questo non significa che ogni lotta sia destinata alla stessa sorte. Lo dimostra la battaglia portata avanti a Baktan Cross dalla rete degli immigrati e dal suo leader, il sensei Sergio, che per quanto squinternata è in grado di tenere testa alla repressione dell’esercito.

Non solo. Ogni battaglia, anche se viene sconfitta, vale comunque la pena di essere combattuta perché, in qualche modo, serve a preparare la battaglia successiva.

Da questa prospettiva, a essere sconfitta non è l’idea della necessità di una resistenza, ma il sistema che è incapace di soffocarla per davvero: nessun esercito può sconfiggere un’idea per cui i tempi siano maturi.

Oltre alla visione dell’autore, questo messaggio riflette certamente una consapevolezza crescente da parte dei cittadini e soprattutto dei giovani, in America e nel resto del mondo (una splendida recensione del film, in questa chiave, la trovate qui).

Sotto la superficie caotica e contraddittoria che vede succedersi senza apparente senso i Trump e i Mamdani, l’ascesa di forze politiche reazionarie e mobilitazioni di massa sempre più radicali, c’è indubbiamente una generazione che vede il marcio della società e ne è disgustata, che ha perso giustamente ogni fiducia e ogni illusione nelle istituzioni che per oltre mezzo secolo l’hanno guidata, che cerca disperatamente una via d’uscita, inevitabilmente radicale, dalla crisi che la attanaglia.

Le migliori storie dei prossimi anni saranno quelle che sapranno intercettare non soltanto il caos che agita la superficie, ma soprattutto il desiderio di cambiamento che si muove nel profondo.

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