Don’t Look Up: cinismo pessimista vs. cinismo ottimista

Ormai ne hanno parlato praticamente tutti, perciò non vedo perché non dovrei dire anch’io la mia su Don’t Look Up, mega-produzione Netflix che ha allietato le nostre vacanze di Natale.

[seguono spoiler]

La storia

In estrema sintesi: i due scienziati Randall Mindy e Kate Dibiasky (Leonardo Di Caprio e Jennifer Lawrence) scoprono una cometa che nel giro di sei mesi colpirà la Terra causando un’estinzione di massa. Il Presidente degli Stati Uniti Jason Orlean (una strepitosa Meryl Streep) dapprima li ignora (così come i media e l’opinione pubblica), ma in un secondo momento decide di sfruttare la faccenda a scopi elettorali e lancia un piano per distruggere la cometa.

La missione viene abortita sul più bello su pressione di Peter Isherwell, imprenditore miliardario e finanziatore della Orlean, che vuole sfruttare la cometa come giacimento di minerali rari anziché distruggerla.

Inizialmente cooptato da Orlean/Isherwell per sostenere il loro progetto, resosi conto dell’inconsistenza dei dati lancia una campagna per la distruzione del meteorite, che ormai tutti possono vedere a occhio nudo nel cielo. La campagna fallisce, osteggiata dalla Presidentessa che esorta i cittadini a “non guardare su”. Prevedibilmente però fallisce anche il piano di Isherwell, che fugge nello spazio insieme alle persone più ricche e potenti del pianeta relegando il resto dell’umanità all’estinzione.

Tra cambiamento climatico e pandemia

Don’t Look Up è concepito come una metafora piuttosto scoperta del pericolo legato al cambiamento climatico e come una critica nei confronti della politica e dell’economia che non stanno facendo praticamente nulla per affrontarlo efficacemente, addirittura negandone l’esistenza.

Non manca anche una critica, più velata, della comunità scientifica – o perlomeno di quella parte di comunità scientifica disposta a piegarsi e asservirsi agli interessi del sistema, a costo di tradire la sua missione. Un aspetto questo tanto più interessante dal momento che, nel frattempo, un altro pericolo globale è giunto a minacciare le nostre esistenze: quello del Covid-19 e della pandemia. E mettere in discussione la buona fede della “scienza ufficiale”, in questo contesto, non è né scontato né privo di spunti di riflessione interessanti.

Anche se non è proprio possibile sovrapporre le due questioni, alcune delle dinamiche descritte nel film si ritrovano nell’ultimo biennio che abbiamo vissuto, e questo probabilmente è all’origine del suo grande successo. Un successo che personalmente trovo superiore ai suoi meriti.

Intendiamoci: il film mi ha divertito e non posso dire che non mi sia piaciuto. Il registro grottesco del racconto tocca decisamente le mie corde, alcune gag sono decisamente riuscite (su tutte la scena successiva ai titoli di coda, che ammicca alla Guida Galattica di Douglas Adams), i protagonisti sono tutti attori eccezionali e in gran forma (se potete, guardatelo in lingua originale!), e anche sotto l’aspetto tecnico il prodotto è molto curato.

È apprezzabile anche la satira, per quanto ingenua, del sistema politico ed economico americano – che Adam McKay aveva già in passato sferzato con il ben più efficace The Big Short (in italiano La grande scommessa), dedicato alla crisi finanziaria del 2007-2008.

Qui l’obiettivo è chiaramente l’amministrazione Trump, noto per la sua posizione negazionista sulla questione del clima, oltre che per tutte le sue altre nefandezze: la Presidentessa Orlean ne fornisce una caricatura riuscita, che oltretutto assimila alcuni aspetti di Hillary Clinton – a parte il sesso femminile, anche l’indissolubile legame con la grande finanza. Così come il personaggio di Peter Isherwell è una combinazione dei tratti personali dei vari Elon Musk, Jeff Bezos, Mark Zuckerberg.

Un messaggio fondamentalmente reazionario

Ma qual è il messaggio del film? Qui casca l’asino.

I due protagonisti principali sono scienziati, certamente animati dalla lodevole intenzione di salvare l’umanità. Per farlo sono disposti a tutto, anche a collaborare con un governo che disprezzano – lo dice senza mezzi termini il personaggio di Jennifer Lawrence. Tuttavia falliscono.

Falliscono perché il governo è fatto di persone incompetenti e corrotte, perché i miliardari pensano solo ai loro profitti, perché i media pensano soltanto agli ascolti e non a informare i cittadini, e perché… le persone sono stupide. Così stupide da credere alla promessa dei nuovi posti di lavoro che saranno creati dal progetto di estrarre minerali dalla cometa – così i genitori di Dibiasky che rifiutano ospitalità alla figlia, in un chiaro riferimento all’elettorato della Rust Belt che ha votato in maggioranza per Trump. Così stupide, infatti da eleggere Orlean/Trump a Presidente degli Stati Uniti.

Nella scena finale “i buoni”, quelli con cui noi spettatori “intelligenti” dobbiamo immedesimarci, sono riuniti a cena nell’attesa rassegnata ma estremamente serena dell’apocalisse. Il messaggio, in fondo, è chiaro: “Non possiamo farci nulla, ce lo meritiamo come specie perché la maggioranza di noi è composta da idioti che invece di ‘guardare in su’ pensano solo al gossip e ai gattini su Instagram”.

Un messaggio che risuona con post che leggiamo tutti i giorni sulle nostre bacheche di Facebook: quelli snob sugli analfabeti funzionali, per intenderci, i cui autori sono proprio il pubblico di riferimento di questo film.

Come quei post, anche Don’t Look Up si rivela alla fine un film dal messaggio fondamentalmente reazionario, così come reazionario il cinismo pessimista di cui è intriso. A essere reazionaria è l’assoluta sfiducia nelle masse che è il suo sottotesto nemmeno nascosto.

Ed è estremamente significativo che, che per “argomentare” la sua tesi, nella sua rappresentazione della “gente” l’autore abbia dovuto eliminare ogni riferimento alle mobilitazioni di massa che in questi anni hanno attraversato non solo gli Usa ma tutto il mondo – specialmente sul tema del cambiamento climatico, e spesso con parole d’ordine assai più radicali di quelle espresse dai protagonisti del film.

Cinismo pessimista vs. cinismo ottimista

La rappresentazione che delle masse fa Adam McKay può strappare una risata sul momento – perché il film è anche ben scritto – ma, se ci fermiamo a riflettere un istante, ci accorgiamo che mentre la satira dei potenti è del tutto appropriata, quella che prende in giro le persone comuni non solo non è satira (per definizione), ma è pure basata su una descrizione sostanzialmente infondata della realtà.

Proprio questa consapevolezza può suggerire una lettura diversa del film, senz’altro estranea alle intenzioni del suo autore ma non per questo meno legittima: una volta che l’opera ha raggiunto i suoi fruitori, ha abbandonato la sfera delle intenzioni del suo autore. Rimane del tutto valida la critica del sistema, didascalica ma anche per questo efficace. Ma il messaggio che possiamo trarne è che senza un intervento attivo delle masse – dei giovani e dei lavoratori in particolare – non c’è via d’uscita ai problemi catastrofici causati in gran parte dal capitalismo.

Per fortuna, a differenza di quanto ci viene raccontato in Don’t Look Up, questo intervento è già un fatto: decine di milioni di persone traggono quotidianamente conseguenze radicali dalla constatazione dei limiti insuperabili del sistema in cui viviamo, e troveranno una strada per abbatterlo.

Teniamoci dunque il cinismo, ma coltiviamone l’unica forma che, grazie alla fiducia nell’azione delle masse, può davvero essere ottimista: quella del marxismo.

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