All’inizio di settembre mi è capitata una cosa parecchio irritante.
Per conto di un gruppo di lavoratori, avevo promosso un giudizio contro una grossa azienda per chiedere cospicui arretrati di stipendio. In estrema sintesi, questi arretrati erano dovuti al fatto che, quando erano stati assunti a tempo indeterminato ormai molti anni fa, l’azienda non aveva tenuto conto, ai fini degli scatti di anzianità, dei contratti a termine con cui avevano lavorato già per diversi anni. In questo modo, al momento dell’assunzione a tempo indeterminato erano “ripartiti da zero”, quando invece avrebbero dovuto avere già due o tre scatti: la differenza di stipendio era nell’ordine di grandezza di circa 6-700 euro all’anno.
Gli importi richiesti erano cospicui dal momento che dall’assunzione a tempo indeterminato di questi lavoratori, che sono ancora in servizio, sono trascorsi circa vent’anni e che, dopo un’importante sentenza della Corte di Cassazione del 6 settembre 2022 (che a suo tempo ho commentato qui), è pacifico che per tutti i lavoratori il diritto di chiedere tutti gli arretrati maturati nel corso del rapporto di lavoro rimane fermo per tutto il tempo in cui rimangono in servizio, e fino a cinque anni dopo la cessazione del rapporto: tecnicamente, si dice che “la prescrizione quinquennale dei crediti di lavoro comincia a decorrere solo dalla cessazione del rapporto di lavoro”. Un principio che la stessa Cassazione poche settimane fa ha esteso anche ai soci lavoratori delle cooperative.
La causa era (ed è) piuttosto fondata, dal momento che una serie di sentenze della Corte di Giustizia dell’UE ha stabilito che un simile trattamento si traduce in una forma di discriminazione – vietata – a danno dei lavoratori con contratto a termine rispetto a quelli di pari livello assunti a tempo indeterminato.
Ne era consapevole anche l’azienda, che infatti fin dalla prima udienza si era dichiarata disponibile a un accordo piuttosto vantaggioso per i lavoratori, pur di risparmiare qualcosina. Dopo una trattativa resa complicata soprattutto dalla difficoltà di conteggiare esattamente gli importi dovuti, alla fine di luglio si era trovata una quadra definitiva: l’accordo era davvero molto vantaggioso per i lavoratori, che di fatto avrebbero ricevuto quasi tutto quello che, secondo i nostri conti, spettava loro. Ci si era lasciati con l’intenzione di firmare l’accordo al rientro dalla pausa estiva, prima dell’udienza successiva che era stata fissata per ottobre.
Ma ecco il colpo di scena. Ai primi di settembre il difensore della società comunica che il suo cliente ha cambiato idea e non è più intenzionato a sottoscrivere alcun accordo (non era obbligato a farlo naturalmente), dal momento che – riferisce – risulta che il governo sia in procinto di emanare un provvedimento che dovrebbe impattare in maniera significativa sul valore della controversia.
Di che si tratta? A quanto pare il governo, incalzato da Confindustria, avrebbe intenzione di mettere mano alla disciplina della prescrizione, per rendere più complicato per i lavoratori ottenere le retribuzioni arretrate.
Ci aveva già provato lo scorso luglio, con un emendamento infilato di soppiatto nella legge di conversione di un decreto che non c’entrava nulla. Quell’emendamento era stato poi ritirato, dopo che giuristi e (alcuni) giornali avevano beccato i suoi promotori con le mani nella marmellata.
Al riguardo avevo scritto:
è davvero inquietante anche solo il tentativo di far passare una norma come questa. Non perché ci si potesse aspettare un qualche rispetto formale dei principi di diritto, ma semplicemente perché è l’avvisaglia che qualcosa faranno – magari meno sfrontato e più presentabile – alla prossima occasione.
Forse la “prossima occasione” è davvero prossima.
Il mio piccolo aneddoto (che comunque riguarda, oltre ai miei assistiti, almeno un centinaio di lavoratori solo in quell’azienda) può essere utile a chiarire l’importanza di difendere la disciplina attuale dalle grinfie di governo e Confindustria. Gli stessi lavoratori che otterrebbero circa diecimila euro vincendo la causa con le regole di oggi, avrebbero diritto a meno di un quarto di quella cifra se cambiassero le regole sulla prescrizione. Ed ecco perché l’azienda non vuole più fare accordi.
In pratica, quello che il governo pare abbia intenzione di fare è letteralmente prendere un sacco di soldi dalle tasche dei lavoratori e metterli nelle tasche dei loro padroni. Bello schifo.
A oggi, non si trovano notizie di questo fantomatico, ma non per questo meno minaccioso provvedimento del governo. Va anche detto subito che ben difficilmente una norma introdotta domani potrebbe avere effetto retroattivo sulle cause già iniziate: l’effetto nefasto sarebbe soltanto (si fa per dire) su chi non abbia ancora fatto valere i propri diritti. Il che non impedirà comunque al governo di “provarci” anche per le cause già pendenti, creando in ogni caso almeno per un periodo una situazione di ulteriore incertezza.
Per il momento, si tratta di tenere alta l’attenzione e di essere pronti a reagire quando salterà fuori. Nelle scorse settimane abbiamo imparato che questo governo ha una paura tremenda dei lavoratori, specie quando si organizzano per difendere i loro diritti: non c’è miglior antidoto possibile contro i soprusi dei potenti.
