I referendum dell’8 e 9 giugno: primo quesito

Dopo che nelle scorse settimane ho scritto  del quarto, del terzo e del secondo quesito, arriviamo finalmente al primo quesito referendario, che per certi aspetti è un po’ il simbolo di questa votazione perché propone di abrogare la legge “manifesto” del giustamente odiato governo Renzi: il Jobs Act, nella parte relativa alle sanzioni in caso di licenziamento illegittimo, e ripristinare così l’Articolo 18.

La norma che ha introdotto le famigerate “tutele crescenti”, con lo scopo non solo di ridurre, ma di rendere esattamente calcolabili per le aziende i costi di un licenziamento illegittimo, si è dimostrata talmente sbagliata, anche sotto il profilo strettamente tecnico-giuridico, da vantare un vero e proprio record di interventi da parte della Corte Costituzionale che l’hanno smantellata pezzo per pezzo.

Il primo meccanismo a saltare è stato proprio quello delle tutele crescenti, ossia della rigida predeterminazione del risarcimento del danno in base all’anzianità di servizio. Poi è stato ampliato il novero dei licenziamenti nulli per violazione di norme imperative, per i quali è prevista la reintegrazione (qui una spiegazione un po’ più approfondita).

Infine, neppure un anno fa, la tutela della reintegrazione è stata reintrodotta sia per una parte dei licenziamenti economici fondati su motivi rivelatisi insussistenti, sia per i licenziamenti disciplinari quando venga accertato che la condotta addebitata al dipendente, pur illecita, avrebbe però dovuto essere sanzionata non con la risoluzione del rapporto ma con una multa o una sospensione (ne ho scritto più diffusamente qui).

Anche oggi, il perimetro della tutela reintegratoria per i dipendenti assunti dopo il 7 marzo 2015, a cui si applica il Jobs Act, è più ristretto rispetto a quello per i lavoratori assunti prima, che hanno conservato l’Articolo 18. Ma la differenza è meno ampia di un tempo, soprattutto perché l’Articolo 18 in questione è quello sfigurato dalla riforma Fornero del 2012.

Non sono molti ormai a ricordarlo, ma prima di quella sciagurata controriforma in tutti i casi di licenziamento dichiarato illegittimo era prevista la reintegrazione (o in alternativa, a scelta del dipendente, una cospicua indennità risarcitoria).

Il fatto che a essere ripristinata, in caso di vittoria del referendum, sarebbe la versione “ridotta” dell’Articolo 18, e non quella originaria, indebolisce oggettivamente la portata del quesito.

Ciò non toglie però che la vittoria del Sì, lungi dall’essere inutile (o addirittura dannosa, come scrive qualche commentatore malizioso allo scopo evidente di seminare confusione),  avrebbe un grande effetto positivo per i lavoratori.

Innanzitutto, sotto l’aspetto più specificamente tecnico, per fattispecie frequenti di licenziamento illegittimo il Jobs Act prevede ancora unicamente un risarcimento anziché la reintegrazione, che invece è prevista dall’Articolo 18: in particolare per quei licenziamenti di tipo economico – sono probabilmente la maggior parte – in cui non è dimostrata l’impossibilità di ricollocare il dipendente.

In secondo luogo, anche in quei casi in cui sia l’una che l’altra disciplina prevedono soltanto un risarcimento economico, nell’esperienza concreta i risarcimenti per i lavoratori a cui si applica l’Articolo 18 sono nettamente superiori – mediamente anche nell’ordine del doppio – rispetto a quelli a cui si applica il Jobs Act.

Infine, non meno importante è il significato politico che avrebbe l’abrogazione di una delle norme più odiose mai concepite in danno dei lavoratori.

A patto di non accontentarsi poi di questo primo risultato, ma di capitalizzare questa vittoria e organizzare immediatamente la lotta per abolire anche l’altrettanto odiosa riforma Fornero e ripristinare il diritto alla reintegrazione per tutti i lavoratori licenziati ingiustamente.

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