Il Jobs Act fa schifo: riprendiamoci l’Articolo 18!

Il Jobs Act è stato una grande riforma” per cui “rialzare la bandiera anacronistica dell’articolo 18 è sbagliato”. Lo ha detto il nuovo segretario di Confindustria? No: è stato qualche giorno fa Luigi Sbarra, segretario generale della Cisl.

Se non è sorprendente che a pronunciarle sia il principale dirigente di un sindacato sostanzialmente padronale, è però particolarmente grottesco che queste parole giungano a meno di due mesi dall’ultima di una sequela di sentenze con cui la Corte Costituzionale ha giudicato illegittimi pezzi importanti della riforma simbolo del governo Renzi.

Nel giro di nove anni dalla sua entrata in vigore, l’impianto originale del Jobs Act è stato stravolto sotto diversi aspetti per effetto degli interventi del giudice delle leggi.

Il primo meccanismo a saltare, nel novembre 2018 (sentenza n. 194/2018), è stato quello delle “tutele crescenti” – vero elemento di discontinuità rispetto all’Articolo 18 “post Fornero” e chiave di volta della riforma renziana – in base al quale il risarcimento del danno in caso di licenziamento illegittimo sarebbe stato determinato dall’anzianità di servizio: due mesi di stipendio per ogni anno di lavoro. In questo modo le imprese avrebbero potuto calcolare in anticipo il costo del licenziamento di un dipendente sgradito, mantenendolo oltretutto piuttosto basso.

In conseguenza di quella sentenza (di poco successiva al Decreto Dignità che ne aveva nel frattempo aumentato il tetto), il risarcimento del danno in favore del lavoratore licenziato illegittimamente da un’impresa con più di 15 dipendenti viene quantificato dal giudice tra un minimo di 6 e un massimo di 36 mensilità, avendo riguardo non solo all’anzianità di servizio, ma anche a tutti gli altri aspetti del caso concreto (numerosità dell’organico, fatturato, gravità della violazione). Impossibile dunque determinarlo a priori, e tendenzialmente si tratta di indennità superiori a quelle che sarebbero state calcolate in base alla sola anzianità.

Nel luglio 2020 (sentenza n. 150/2020) la Corte Costituzionale ha abolito lo stesso meccanismo delle tutele crescenti anche nel caso di licenziamenti dichiarati illegittimi per violazioni di carattere meramente formale o procedurale, sostituito anche in questo caso dalla discrezionalità del giudice tra un minimo e un massimo (in questo caso 2 e 12 mensilità).

La pronuncia più recente (sentenza n. 22/2024) invece riguarda una delle poche ipotesi in cui il Jobs Act ancora prevede la reintegrazione. Nell’impianto originale del decreto, il lavoratore licenziato ingiustamente aveva diritto a riavere il posto di lavoro soltanto:

  • in caso di licenziamento disciplinare, ma solo se il fatto contestato risultasse materialmente insussistente; invece nei casi di licenziamento sproporzionato (ossia quando fosse stata commessa una violazione, ma non abbastanza grave da meritare il licenziamento) era ed è previsto unicamente un risarcimento;
  • in caso di licenziamento nullo perché discriminatorio o perché riconducibile ad altri casi di nullità espressamente previsti dalla legge.

Un primo ampliamento del campo di applicazione della reintegrazione ha riguardato i licenziamenti disciplinari. La giurisprudenza ha pressoché da subito interpretato la nozione di “insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore” nel senso che debba necessariamente ricomprendere anche il fatto materiale sussistente ma irrilevante sotto il profilo disciplinare.

Ci è voluta invece la Corte Costituzionale (anche se per la verità non mancavano sentenze che già avevano disapplicato la norma) per scardinare finalmente anche la limitazione che escludeva dalla tutela reintegratoria le ipotesi di licenziamento sicuramente vietato per violazione di norme di primaria importanza (le c.d. “norme imperative”) che non ne prevedessero però espressamente la nullità.

Questa limitazione lasciava “scoperti” casi particolarmente gravi, come il licenziamento per superamento del numero massimo di giorni di malattia/infortunio (c.d. periodo di comporto, ovviamente nei casi in cui non fosse stato davvero superato), o il licenziamento ritorsivo – ossia la “vendetta” del datore di lavoro per il legittimo esercizio di un diritto da parte del lavoratore.

Ora è stato abolito quell’espressamente: un altro pezzettino di giustizia è fatto dunque.

Del resto perfino quando ha deciso di non poter intervenire la Corte Costituzionale non ha mancato di sottolineare l’iniquità del regime sanzionatorio previsto dal Jobs Act.

È capitato nella sentenza n. 183 del 22 luglio 2022, quando è stata chiamata a valutare la legittimità costituzionale, da un lato, della modestia del risarcimento previsto in caso di licenziamento illegittimo per i dipendenti di imprese con meno di 16 dipendenti (da 3 a 6 mesi di stipendio); dall’altro, dell’adeguatezza del criterio basato solo sul numero di dipendenti per determinare la forza economica dell’impresa e di conseguenza limitare la tutela nel massimo di 6 mensilità.

In questo caso i giudici, pur riconoscendo l’inadeguatezza sia della tutela che del criterio di distinzione tra imprese piccole e medio-grandi, hanno ritenuto che il compito di sanare l’ingiustizia fosse del legislatore e non del giudice. Non hanno potuto però “esimersi dal segnalare che un ulteriore protrarsi dell’inerzia legislativa non sarebbe tollerabile e la indurrebbe, ove nuovamente investita, a provvedere direttamente”.

Prevedibilmente, finora l’ultimatum è rimasto inascoltato e centinaia di migliaia di lavoratori, dipendenti di imprese con meno di 16 dipendenti ma con milioni di fatturato, sono ancora in totale balia dei loro datori di lavoro.

Inoltre, anche nelle imprese con organico maggiore e nonostante le modifiche imposte dalla magistratura, a oggi sia nel caso dei licenziamenti collettivi, sia nella generalità dei casi di licenziamento per motivi economici, tecnici e organizzativi, l’unica tutela rimasta ai lavoratori assunti dopo l’entrata in vigore del Jobs Act è quella risarcitoria.

Soltanto quelli assunti prima del marzo 2015, a cui si applica ancora l’Articolo 18, hanno invece diritto alla reintegrazione, dopo che la Corte Costituzionale nel maggio 2022 (sentenza n. 125/2022) l’ha ripristinata cancellando una delle peggiori storture della riforma Fornero del 2012. Troppo tardi, purtroppo, per decine di migliaia di lavoratori licenziati nei quasi dieci anni precedenti.

L’ingiustizia di questo sistema, che lascia alle imprese un arbitrio pressoché totale sulla sorte dei loro dipendenti, è evidente e clamorosa.

Nella totale mancanza di organizzazioni politiche e nella vergognosa diserzione di quelle sindacali che dovrebbero rappresentare gli interessi dei lavoratori, le sentenze che ampliano le tutele sono certamente utili. Ma di sicuro non bastano.

È per questo che, oltre ad accogliere con il meritato disprezzo parole come quelle di Sbarra, occorre organizzarsi per riconquistare i diritti perduti, primo fra tutti quello alla reintegrazione in tutti i casi di licenziamento illegittimo: la bandiera dell’Articolo 18 non è affatto anacronistica, e deve tornare a sventolare.

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