Il Decretone del Primo Maggio

Tra fanfare e squilli di tromba, il governo Meloni ha annunciato per il Primo Maggio, festa dei lavoratori, un Consiglio dei ministri straordinario per l’approvazione di un “Decreto Lavoro”.

La scelta della data, così come la convocazione dei sindacati solo per la sera del 30 aprile, escludendo così qualsiasi confronto, sono chiaramente una provocazione.

Ma la bozza del provvedimento (l’ultima disponibile nel momento in cui scrivo è del 30 aprile) rivela che, al netto dei proclami roboanti, le modifiche sono tutto sommato di piccolo cabotaggio.

Il che conferma, da un lato, che questo governo ha una gran paura delle reazioni sociali che avrebbe un attacco davvero significativo alle già difficili condizioni di lavoratori e disoccupati: l’esempio di Inghilterra, Francia e Germania è un monito efficace.

Dall’altro, che gran parte del “lavoro sporco” l’hanno già fatto i governi precedenti, specialmente da Renzi in avanti, senza che la parentesi “giallo-rossa” del secondo governo Conte abbia sostanzialmente invertito la tendenza.

L’enfasi maggiore è stata posta sulla riduzione del costo del lavoro: un provvedimento che, secondo molte stime, per i lavoratori dal reddito più basso vale circa 300 Euro all’anno e che nelle intenzioni del governo dovrebbe servire a “moderare gli incrementi salariali”.

Per il resto, come al solito in questi decreti-minestrone, c’è di tutto un po’: vediamo in dettaglio gli interventi più interessanti dal mio punto di vista.

Le “nuove misure di inclusione sociale e lavorativa”

La parte principale del provvedimento riguarda le “nuove misure di inclusione sociale e lavorativa”, ossia la disciplina destinata a sostituire il Reddito di cittadinanza.

In sostituzione del RdC, il nuovo decreto prevede un “assegno di inclusione”, che si distingue dal precedente sussidio quasi esclusivamente per la platea di beneficiari.

A ottenere l’assegno saranno ora soltanto i componenti di nuclei familiari di cui fanno parte minori, ultrasessantenni o disabili. Per costoro, sia l’importo mensile che le condizioni per ottenerlo saranno sostanzialmente identiche a quelle precedenti.

Va detto che la riduzione della platea è tutto sommato modesta. Secondo le ultime statistiche disponibili, circa tre quarti dei nuclei familiari beneficiari del RdC comprendeva minori (oltre metà) o disabili. Sommando anche gli ultrasessantenni (non indicati nelle statistiche) è verosimile che circa il 90% di chi percepiva il RdC potrà continuare a ottenere un sussidio del tutto analogo.

Per gli esclusi, è comunque prevista una misura sussidiaria chiamata “strumento di attivazione”, che consiste in un assegno mensile di 350 Euro, erogabile per non più di dodici mesi e condizionato tra l’altro alla prova di aver cercato (invano) lavoro e alla partecipazione a progetti di formazione, qualificazione e riqualificazione professionale, servizio civile, lavori socialmente utili.

È evidente dunque che il governo ha fatto un passo indietro rispetto sia ai propositi sbandierati fin dalla campagna elettorale (con toni per la verità non molto diversi da quelli di gran parte del Partito Democratico), sia alle intenzioni manifestate nella manovra finanziaria di dicembre, che aveva sancito l’abolizione (differita al 31 dicembre 2023) del RdC senza specificare che cosa l’avrebbe sostituito. Devono aver avuto un certo effetto le proteste di disoccupati scoppiate in questi mesi, piccole avvisaglie di quel che sarebbe potuto succedere se la riforma fosse stata più incisiva.

Fa comunque una certa impressione leggere la sfilza di condizioni, incompatibilità, controlli, sanzioni (solo questi occupano cinque pagine!) a cui sono sottoposti i beneficiari di un sussidio che, stando alle statistiche INPS, è inferiore in media a 600 Euro al mese per ciascun nucleo familiare. Si tratta di vere e proprie forche caudine che però erano già in larghissima parte previste per il RdC.

Tra le più odiose, quella legata all’obbligo di accettare qualsiasi offerta di lavoro (nel nuovo decreto, anche la prima che venga ricevuta, mentre prima era consentito un rifiuto) che è considerata “congrua” anche se implica un trasferimento in qualsiasi parte del territorio nazionale se si tratta di contratti a tempo pieno e a tempo indeterminato (ma perfino a tempo determinato purché di durata superiore a un anno!), e in ogni caso se il lavoro è entro gli 80 km di distanza anche se si tratta di part time e/o contratto a termine.

Non è chiaro a dire il vero perché mai un’impresa del Nord Italia dovrebbe offrire un impiego proprio a un percettore di assegno di inclusione del Sud, se non per ottenere gli sgravi contributivi che, nel nuovo decreto, sono gli unici sussidi a essere aumentati rispetto alla disciplina precedente: fino a 8.000 Euro all’anno, ossia più del valore dell’assegno medio erogato (e ovviamente, senza che neppure mezza riga sia dedicata a controlli e sanzioni per gli imprenditori che dovessero abusarne).

Tra le pochissime novità, infine, va segnalato l’obbligo dei percettori dell’assegno di rivolgersi periodicamente ai servizi sociali territoriali per una “valutazione multidimensionale dei bisogni del nucleo familiare, finalizzata alla sottoscrizione di un patto per l’inclusione”, pena la sospensione del beneficio.

C’è da chiedersi come faranno i servizi sociali, cronicamente sottodimensionati e sottofinanziati, a sostenere il carico di questo lavoro. Tanto più che è espressamente previsto che a queste attività si provvede “senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica”.

La risposta è nelle stesse pagine del decreto, là dove si legge che i servizi territoriali opereranno in stretto raccordo con il Terzo settore, la cui attività è “riconosciuta, agevolata e valorizzata”. Sperando non si tratti di certe finte cooperative in cui mi sono imbattuto frequentemente nel mio lavoro, e che ho dovuto inseguire perché pagassero ai loro “soci” il peraltro misero stipendio previsto dal famigerato contratto collettivo delle cooperative sociali.

I contratti a termine

Sul fronte del diritto del lavoro vero e proprio, l’unica modifica di una qualche rilevanza riguarda, manco a dirlo, i contratti a termine – il singolo istituto che ha subito nel corso degli ultimi vent’anni il maggior numero di interventi.

Detto che l’unico vero argine alla precarietà è l’abolizione dell’istituto, una situazione accettabile dal punto di vista legale era quella precedente la riforma Fornero del 2012, quando per tutti i contratti a tempo determinato era previsto l’obbligo di indicare la causale, ossia lo specifico motivo per cui quel singolo lavoratore veniva assunto temporaneamente e non a tempo indeterminato.

La legge Fornero aveva abolito quest’obbligo per i contratti di durata non superiore a un anno, in questo modo incentivando le aziende a un turn over ancora più spinto dei lavoratori precari. Il governo Renzi aveva completato l’opera abolendo del tutto l’obbligo della causale.

Obbligo reintrodotto dal Decreto Dignità, ma di nuovo solo per i contratti di durata superiore a un anno, che potevano essere stipulati solo a fronte di “esigenze temporanee e oggettive, estranee all’ordinaria attività, ovvero esigenze di sostituzione di altri lavoratori”, oppure di “esigenze connesse a incrementi temporanei, significativi e non programmabili, dell’attività ordinaria”. Al giudice, in caso di ricorso in tribunale, stabilire caso per caso se le esigenze indicate nel contratto esistessero per davvero.

Infine, approfittando della pandemia, in sede di conversione del “Decreto sostegni bis” nel luglio 2021 era stata aggiunta un’ulteriore ipotesi di causale “aperta”, consistente nelle “specifiche esigenze previste dai contratti collettivi” nazionali, territoriali o aziendali stipulati dalle associazioni sindacali più rappresentative e dalle loro rappresentanze aziendali (o dalle RSU).

Quest’ultima modifica, inizialmente prevista come temporanea, è poi diventata strutturale.

Il Decreto del Primo Maggio mantiene fermo l’impianto di fondo. Non a caso nella relazione al provvedimento è espressamente rivendicata la continuità di questo intervento con quelli effettuati dai governi precedenti nella prospettiva di un “progressivo allentamento delle rigidità delle causali, fino alla possibilità della loro omissione, proprio per venire incontro ad esigenze occupazionali, giocoforza temporanee, alla luce delle incertezze fisiologiche del mercato del lavoro”.

Il governo si limita in sostanza ad aggiungere un’ulteriore “causale aperta” per i contratti di durata superiore a un anno, nell’attesa che i contratti collettivi stabiliscano le loro proprie causali e “in ogni caso entro il 31 dicembre 2024”: si tratta delle “esigenze di natura tecnica, organizzativa o produttiva individuate dalle parti”.

Ulteriori modifiche peggiorative inizialmente inserite nelle prime bozze del decreto sono state poi eliminate, forse anche qui per evitare ulteriori polveroni, ma soprattutto perché in sostanza non c’era davvero molto da peggiorare rispetto alla normativa attuale.

Suonano allora particolarmente ipocrite le critiche su questo tema provenienti non solo dal Partito Democratico, ma anche dallo stesso Movimento 5 Stelle, dal momento che entrambi questi partiti, sia pure in misura diversa, sono responsabili della liberalizzazione dei contratti a termine avvenuta sotto i precedenti governi.

L’unica strada per combattere davvero la precarietà passa dal ripristino dell’obbligo della causale anche per i contratti a termine di breve durata, e conduce necessariamente all’abolizione totale dei contratti a tempo determinato.

Il Fondo per i familiari degli studenti deceduti (al lavoro)

Infine, tra le altre misure spicca per il suo cinismo la costituzione di un Fondo per i familiari degli studenti vittime di infortuni in occasione delle attività formative.

Il governo, si legge nella relazione illustrativa, prende atto che “Le statistiche pubblicate dall’INAIL registrano mediamente cinque infortuni mortali l’anno che, dal 2018, colpiscono gli studenti impegnati in attività scolastiche”.

Insomma, gli studenti muoiono durante l’alternanza scuola-lavoro. Invece di abolirla, si pagano le famiglie degli studenti deceduti, e si stabilisce anche il prezzo di queste vite: in media 400mila Euro per ciascuna, dal momento che il Fondo prevede una dotazione di 2 milioni di Euro all’anno (10 milioni per il periodo dal 2018 al 2022).

Anche in questo caso il governo Meloni si distingue per il cattivo gusto. Ma per un vero cambiamento l’alternativa non possono essere certamente i suoi predecessori: è tutto il sistema che è marcio fino al midollo e bisogna organizzarsi per spazzarlo via.

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