Il Risorgimento non è un pranzo di gala

Da quando anni fa mi capitò di approfondire la biografia del mio antenato Raffaele Villari, mazziniano e garibaldino di un certo rilievo nella Messina della seconda metà dell’Ottocento, non ho mai smesso di interessarmi alla storia del Risorgimento. Non è tanto la successione di nomi e battaglie ad appassionarmi, quanto tutte quelle storie che smontano il mito di una fondativa “memoria condivisa”, di un’Italia che sarebbe stata unita grazie allo sforzo congiunto del “popolo” intero e indifferenziato.

Questo mito è quel che ci hanno insegnato a scuola, nei libri in cui ad esempio vengono sostanzialmente affiancate e celebrate senza riserve le figure di Garibaldi e Mazzini. Dimenticando le intricate vicissitudini del primo e soprattutto il fatto che il secondo fu costretto in esilio per oltre due terzi della sua vita e salvo una piccola interruzione fino alla morte, ancora ben dopo l’unità d’Italia. La monarchia sabauda, prima e dopo l’unità d’Italia, lo considerò fino alla fine dei suoi giorni un terrorista, salvo istituire ai primi del Novecento una commissione per l’Edizione nazionale delle sue opere: era già avviata all’epoca la sussunzione di Mazzini nel pantheon dei “padri fondatori” di un’Italia che il potere ha sempre voluto rappresentare come un corpo concorde e privo di contraddizioni interne, compattamente unito contro i “nemici esterni” di volta in volta utili alla causa.

Gli anni del coltello di Valerio Evangelisti, uscito per Mondadori lo scorso luglio, è uno strumento prezioso per smontare questa narrazione tossica.

Il romanzo prende le mosse nei giorni della definitiva capitolazione della Repubblica romana, che Valerio aveva descritto nel precedente 1849. I guerrieri della libertà. Il protagonista Giovanni Marioni “Gabariol”, scampato al massacro dei rivoluzionari, è un seguace convinto delle idee di Mazzini e non ha alcuna intenzione di rassegnarsi a questa sconfitta. Inizia così un viaggio nell’Italia settentrionale, dalla Romagna governata dal Papa con l’ausilio dell’esercito austriaco, alla Milano schiacciata direttamente dal tallone di ferro asburgico, al Ducato di Parma, non senza un rapido passaggio nella Genova dei Savoia. A ogni tappa Gabariol si imbatte nelle diverse anime del “patriottismo” unitario: ai due estremi, inconciliabili e ferocemente nemici, le “marsine” di Milano,ossia l’aristocrazia e la grande borghesia liberale che punta all’alleanza con i Savoia abbandonando gli ideali repubblicani, e i socialisti “proudhoniani” come Pisacane; in mezzo ogni combinazione possibile sugli assi “interclassismo/lotta di classe”, “terrorismo individuale/insurrezione popolare”, “ideali repubblicani/fiducia nella monarchia sabauda”. Una confusione resa possibile d’altra parte dalla stessa confusa ideologia di Mazzini.

Non c’è alcuna unità possibile tra queste fazioni. Gli aristocratici deliberatamente tradiscono in modo sistematico ogni sollevazione popolare: “Quale popolo? Replicò De Cristoforis, aggressivo. Nelle strade si è vista solo feccia, plebaglia. Neanche una faccia onesta. L’insurrezione degli operai, degli straccioni. Non si andrà lontano, con una base del genere. Mazzini non la vorrebbe, ma ogni volta se la trova fra i piedi. Gente destinata all’ospizio dei poveri, non a fondare l’Italia unita.” La plebe non si fida di nobili e intellettuali: “Siano maledetti i signori che fanno la rivoluzione, quando la fanno, per cambiare di re.

Nessuna unità se non quella apparente raccontata a posteriori dalle classi dominanti ci sarà mai non solo in tutte le successive vicende del Risorgimento, ma neppure nel resto della storia d’Italia: man mano che la coscienza politica si approfondisce, al contrario, si approfondiranno anche le divisioni su base di classe. È questo contrasto il vero filo rosso che lega il Risorgimento con la Resistenza, come l’autore ha voluto sottolineare collegando esplicitamente vicende e protagonisti dei suoi due romanzi risorgimentali con il trittico de Il sole dell’avvenire, in cui ha descritto le vicende del movimento contadino e operaio nel periodo compreso tra l’ascesa del socialismo nell’ultimo quarto dell’Ottocento e la fine del regime nazifascista.

Quello di Valerio diventa così un unico ciclo di cinque romanzi che raccontano un secolo di storia d’Italia, descritta dal punto di vista “militante” di rivoluzionari più o meno consapevoli e tutti estremamente umili, e tutti in modo o nell’altro sconfitti. Lo sono ovviamente i combattenti della Repubblica romana; lo sono di fatto Gabariol e i repubblicani dal momento che il Risorgimento italiano sarà realizzato secondo il programma della monarchia di Savoia e dell’aristocrazia liberale del Nord Italia; lo saranno i protagonisti di Nella notte ci guidano le stelle che alla fine della Resistenza non vedranno affatto realizzata la società nuova per cui avevano imbracciato i fucili.

Nel racconto di queste sconfitte non c’è però alcuna commiserazione. Si tratta invece di trarne delle lezioni, di spiegare, nella nostra epoca che vede faticosamente riemergere tendenze rivoluzionarie in tutto il mondo e in cui si preparano enormi rivolgimenti, quali sono gli errori da non ripetere e le teorie da cui stare alla larga: prima fra tutte, proprio l’idea dell’inutilità o della marginalità del conflitto di classe, alla base dell’ideologia di Mazzini ma anche dei compromessi e dei veri e propri tradimenti dei dirigenti comunisti durante e dopo la Resistenza.

Colpisce ancora una volta, ne Gli anni del coltello come già in molti dei precedenti romanzi di Evangelisti, la crudezza del racconto, in particolare nel rappresentare la violenza degli oppressi. Anche questo tratto è funzionale a rompere la narrazione di un Risorgimento eroico e immacolato. Come Sergio Leone in Giù la testa (è il paragone più immediato che mi viene in mente), Valerio non ha alcun pudore nel dipingere personaggi moralmente discutibili, psicotici se non proprio brutali, a partire proprio dal protagonista Gabariol, che non si fa scrupoli a sbudellare a sangue freddo nemici (veri o presunti) e traditori. È costante però il promemoria che la pietra di paragone per qualsiasi giudizio non può essere la moralità del lettore contemporaneo, ma necessariamente la violenza perpetrata degli oppressori, che è sempre di vari ordini di grandezza peggiore.

Semmai queste forme di terrorismo individuale possono essere discusse sul piano della loro utilità rispetto allo scopo: è quello che fa a più riprese il principale personaggio femminile del romanzo, Marietta Pistrucci. Come molte donne raccontate da Evangelisti, anche Marietta, intelligente e (relativamente) emancipata, rappresenta un po’ la “coscienza” della storia, il vero interlocutore dei lettori all’interno della vicenda. È lei a criticare la tattica degli omicidi e degli attentati, non sulla base della loro astratta moralità, ma dal punto di vista dell’utilità: “Pensi che adesso, morto e sepolto il duca, la repubblica sia più vicina? Senti più vicina l’insurrezione degli italiani? Certamente no. E allora a cosa vi servono questi delitti? Sono senza scopo, te ne rendi conto?

Sono gli stessi argomenti illustrati da Trotskij ne La loro morale e la nostra, uno dei testi più importanti nella mia personale formazione politica. E del resto Gli anni del coltello risuona (mutatis mutandis) con la mia esperienza di militante di un’organizzazione rivoluzionaria, nella rappresentazione della ricerca di una base teorica solida per l’azione politica, ma soprattutto nella descrizione della solidarietà e della generosità tra compagni di sezioni, ed entro certi limiti di fazioni diverse.

Un motivo in più per consigliare questo romanzo (anche a chi non avesse letto il precedente), specialmente a chi vorrà trarne un’ispirazione per continuare a lottare per l’ideale di un mondo migliore.

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