Chi vuole un contratto a termine?

Sono passate un paio di settimane da quando scrivevo che, nel famoso “Piano Colao” per il rilancio dell’economia italiana, l’unica proposta riguardante in senso stretto il mondo del lavoro fosse la liberalizzazione dei contratti a termine.

Negli ultimi giorni la proposta ha preso piede e al grido “disperato” di Confindustria ha fatto prontamente sponda prima la carta stampata – con l’accorato appello dell’ex presidente dell’Inps Tito Boeri dalle colonne di Repubblica, fresca di passaggio alla famiglia Agnelli – e poi direttamente il Ministro dell’Economia Roberto Gualtieri, sia pure con sfumature leggermente diverse. L’obiettivo del padronato e dei suoi alfieri più o meno servili è quello di tornare al “liberi tutti” del Jobs Act, cancellando i pur fragili paletti del “Decreto Dignità” della scorsa estate.

In ballo è l’obbligo per il datore di lavoro di indicare nel contratto la ragione (c.d. “causale”) per cui il lavoratore viene assunto a termine anziché a tempo indeterminato, in ossequio al principio – ipocritamente sancito ancora dalla norma di apertura del Jobs Act – per cui “il contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato costituisce la forma comune di rapporto di lavoro“. Prima di andare avanti, ecco un riassunto delle puntate precedenti.

L’obbligo della causale era pressoché assoluto e valeva per tutti i contratti a termine fino al luglio 2012, quando la riforma Fornero stabilì che non fosse necessaria per i contratti a termine di durata inferiore a un anno, ma solo per quelli di durata fin dall’inizio superiore o nel caso in cui la durata del contratto superasse l’anno per effetto di una o più proroghe. Ovviamente l’effetto fu il proliferare di contratti brevi non rinnovati, con un aumento del turn-over e la conseguente esplosione del numero assoluto di contratti a termine. Naturalmente, a questo aumento del numero di contratti a termine non corrispondeva affatto un aumento dell’occupazione, perché semplicemente aumentava il numero di contratti a persona.

Nel 2015 il Jobs Act completa l’opera escludendo l’obbligo di causale per tutti i contratti a termine, a prescindere dalla loro durata, ma allo stesso tempo introduce fortissimi incentivi alle imprese per le assunzioni a tempo indeterminato e azzerando le tutele per questi “nuovi” assunti in caso di licenziamento illegittimo – le famigerate “tutele crescenti”. Grazie ai soldi regalati dallo Stato alle imprese e alla facoltà gentilmente concessa di liberarsi di lavoratori sgraditi quasi a costo zero, l’occupazione sale leggermente.

Tra l’estate e l’autunno del 2018 succedono varie cose. Prima, per quanto riguarda i contratti a termine, il “Decreto Dignità” riporta sostanzialmente le lancette dell’orologio alla riforma del 2012, ripristinando l’obbligo della causale per i contratti più lunghi di un anno. Poi la Corte Costituzionale dichiara incostituzionali le tutele crescenti: in caso di licenziamento illegittimo continua a essere quasi sempre preclusa la reintegrazione, ma se non altro il risarcimento economico torna a essere un piccolo ma significativo deterrente (peraltro, proprio in questi giorni la Corte Costituzionale completa lo smantellamento del sistema delle tutele crescenti dichiarando illegittima anche la norma relativa alla tutela in caso di licenziamento illegittimo per vizi formali).

L’effetto è una nuova esplosione dei contratti a termine brevi. L’occupazione sale leggermente, ma è un’occupazione di merda, sottopagata e spesso part time oltre che a tempo determinato, come spiegavo un anno fa commentando i dati ISTAT.

È vero però che, rispetto al periodo del Jobs Act, aumenta leggermente anche il numero di contratti a termine che vengono convertiti in assunzioni stabili: sempre in una minoranza di casi, ma più che in precedenza, il vantaggio di tenere un lavoratore già formato nel primo anno di contratto è superiore al costo di non poterlo licenziare un domani completamente gratis.

È precisamente questo costo che, con il pretesto del Covid-19, il padronato vuole nuovamente tagliare. Perciò non si accontenta della misura temporanea già contenuta nel Decreto Rilancio, in cui è prevista la deroga all’obbligo di indicare la causale in caso di rinnovo o di proroga di contratti già in essere al 23 febbraio e con scadenza entro il 30 agosto. Chiede a gran voce che l’obbligo della causale venga abolito sempre e comunque. Incarica i suoi intellettuali di riferimento di mentire all’opinione pubblica millantando che “le imprese hanno smesso di assumere e di prorogare i contratti a tempo determinato, il cui rinnovo è ostacolato dalla burocrazia imposta dal Decreto Dignità. Se si vuole contenere le perdite occupazionali bisogna stimolare i rinnovi di contratti a tempo determinato.” (così Tito Boeri su Repubblica del 17 giugno). Dove per “burocrazia” vengono spacciate le pur misere tutele a favore della stabilità dei rapporti di lavoro – e dunque delle stesse condizioni di vita dei lavoratori.

Ma se è chiarissimo quale sia per i lavoratori il beneficio della stabilità del posto di lavoro – ottenuta con tutele maggiori in caso di licenziamento illegittimo e paletti più rigidi per le assunzioni precarie – forse non è altrettanto evidente in che cosa consista davvero il costo di queste misure per i datori di lavoro. Non è evidente perché viene sistematicamente taciuto nel dibattito pubblico sulla “flessibilità” del lavoro.

Innanzitutto c’è un costo diretto. Posto che è sempre possibile licenziare un lavoratore quando ci sia un motivo valido per farlo, il costo immediato della stabilità lavorativa per il datore di lavoro è quello necessario a licenziare un dipendente quando non c’è un motivo valido. Ma è sopratutto l’effetto a cascata quello che interessa al padronato: se non esiste il diritto (perché manca la relativa tutela) alla stabilità del posto di lavoro, allora tutti sono sempre ricattabili e saranno costretti ad accettare condizioni di lavoro tendenzialmente sempre minori, appiattite sul minimo possibile. Non parliamo ovviamente di un ricatto “illegale” – naturalmente c’è anche questo, come dimostra il recente caso di Uber Italy – ma di una condizione del tutto fisiologica. In altre parole, e per farla semplice, qualunque forma di stabilità del posto di lavoro finisce per costringere il padronato a pagare i lavoratori un po’ di più.

Insomma, quelle spacciate da Repubblica e compagnia cantante sono balle. Come è ovvio per chiunque non sia prezzolato da Confindustria, le imprese assumono se hanno bisogno di assumere: la “flessibilità” non crea e non ha mai creato nemmeno un posto di lavoro, serve solo ad arricchire il padronato a spese dei lavoratori. Non ce n’è davvero bisogno.

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