Dietro la maschera di Joker

Sono stato due giorni al Lucca Comics & Games. Mi aspettavo che quest’anno il Joker di Joaquin Phoenix avrebbe ispirato centinaia di cosplayer ma mi sbagliavo, ne ho visti appena tre o quattro: molti meno non dico dei quotatissimi Avengers, ma perfino dell’immarcescibile Jack Sparrow.

Sorprendente, considerando il successo del film di Todd Phillips, capace non soltanto di vincere il Leone d’Oro a Venezia per i suoi meriti cinematografici, ma anche di suscitare un dibattito accesissimo sul suo significato e il suo valore (o disvalore) sociale e politico.

Personalmente mi è piaciuto molto. Quella di Arthur Fleck è una storia bellissima anche perché è una storia ambivalente: il viaggio dell'(anti)eroe è contemporaneamente una discesa negli inferi dell’autodistruzione e un’ascesa verso la propria realizzazione. Così nasce un grande cattivo. Joker è un film magnifico perché utilizza i mezzi espressivi del cinema per raccontare questa storia: come nelle sequenze in cui vengono rappresentate le frustrazioni del protagonista mostrando i suoi sogni (che in fondo si limitano al desiderio di essere amato: dal comico televisivo Murray Franklin, dal pubblico, da una donna) senza nessuno stacco rispetto alla “realtà”; e rappresentando poi la realtà che chiede il conto, svelando senza pietà l’autoinganno di Arthur. E nonostante evidentemente non sia un film di supereroi, è suggestivo anche l’incastro della genesi di Joker con il mito delle origini di Batman, fino a suggerire che i due possano essere fratelli.

Nella scena cruciale, quella in cui il protagonista affronta e uccide il suo “mentore” Murray Franklin, riconoscendo in lui e nella società che rappresenta il suo “antagonista”, il personaggio di Arthur Fleck, che ha ormai acquisito definitivamente la veste di Joker, afferma di non avere alcun messaggio politico. Eppure di significati politici il film è totalmente impregnato.

Probabilmente è questa la ragione per cui questo Joker non attira troppo i cosplayer, mentre sono molte di più le sue maschere comparse negli ultimi mesi nelle piazze e nelle strade di Hong Kong, Santiago, Beirut, durante le manifestazioni che stanno infiammando mezzo mondo, come riportava pochi giorni fa anche un preoccupato articolo del sito Linkiesta. Concludeva il suo autore, Oscar di Montigny:

Ma un nuovo, omnicomprensivo Dio della ribellione che non comprende in sé alcuna possibilità di redenzione né di soluzione né di bellezza, è proprio ciò di cui abbiamo bisogno?
Non servono piuttosto visione positiva e azioni condivise? Non è essenziale piuttosto coordinare gli sforzi di ogni singola coscienza verso una nuova educazione che sia orientata al rispetto del Tutto e non alla sua totale distruzione?

È una posizione di fatto speculare a quella espressa da Jack Orlando su carmillaonline, secondo cui invece

o saremo in grado di comprenderla ed indossarla quella maschera, o il fuoco che muoverà brucerà noi per primi.

Altri ancora hanno colto invece un’apologia dell’individualismo sostanzialmente reazionaria, o al contrario un invito esplicito alla lotta di classe.

Per quanto mi riguarda, innanzitutto credo che proprio il fatto che se ne possano trarre messaggi morali e politici differenti sia una qualità dell’opera narrativa, piuttosto che un difetto. Anche quando ne condivido l’ideologia, trovo in generale stucchevoli opere troppo didascaliche.

Ciò premesso, a me sembra che il messaggio politico principale che l’autore voleva indirizzare al pubblico sia piuttosto chiaro, ossia “Hey, potenti e ricchi del mondo: se non cedete qualcosa del troppo che avete ai troppi che ne hanno bisogno, più presto che tardi succederà un casino“. Un messaggio se vogliamo anche apparentemente di buon senso di fronte alle diseguaglianze galoppanti e agli evidenti cataclismi sociali che provocano, con un sottotesto ideologico riformista. Molto diverso e assai meno reazionario, peraltro, da quello di un altro film di Batman, Il ritorno del Cavaliere Oscuro, terzo della trilogia diretta da Christopher Nolan, in cui masse popolari altrettanto inferocite erano dipinte come sciocchi burattini controllati dalle solite élite. Qui, se non altro, Todd Phillips riconosce la genuinità e la radice materiale della rabbia che monta nei bassifondi.

Ma non è tanto interessante qui l’intenzione dell’autore, quanto il modo in cui è stata accolta dal pubblico, che si è polarizzato (almeno nel dibattito) intorno ai due estremi: da un lato timore che le plebi effettivamente inferocite di questo scorcio di decennio possano emulare l’anarchia scatenata e amorale del Joker, dall’altro esattamente lo spirito di emulazione tanto temuto, puntualmente rivolto contro i potenti di turno.

Sembra che lo spazio del “giusto mezzo” sia quasi vuoto. Non credo sia un caso, ma al contrario lo specchio dei tempi in cui viviamo: tempi in cui le soluzioni di “buon senso” hanno cessato di essere percorribili e sono diventate più utopistiche dei programmi rivoluzionari. Non si tratta più (se mai si è trattato) di correggere di qui, redistribuire di là, mettere qualche pezza che consenta al sistema economico di proseguire il suo corso aggiustandone un po’ la direzione. Quello che più o meno consapevolmente appare sempre più chiaro a molti è che l’unica possibilità di sopravvivenza sta nel rovesciamento completo del sistema. E dall’altra parte (della barricata) chi detiene le leve del potere economico e sociale sa che non può permettersi di cederne neppure una briciola, senza rischiare di perderle del tutto. Perché qui nel mondo reale Batman non li può salvare.

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