Due letture per il 25 Aprile

Il 14 aprile scorso è morto Umberto Respizzi, un partigiano che ho avuto il privilegio di conoscere e ascoltare un 25 Aprile pavese di qualche anno fa. Nel suo intervento davanti ai molti che avevano scelto di disertare la piazza “istituzionale” con il sindaco forzista di allora e un prete di destra, “Luccio” pronunciò una frase che mi è rimasta impressa:

Esistono soltanto due partiti: quello degli sfruttatori e quello degli sfruttati

Si tratta di scegliere da che parte stare. L’essenza del 25 Aprile è la celebrazione e il ricordo di quanti scelsero la parte giusta in un’epoca in cui era straordinariamente difficile e pericoloso farlo.

Senza questa consapevolezza la Festa della Liberazione perde completamente il proprio senso. Un modo efficace per mantenere questa memoria è ricordare che anche quella di coloro che contribuirono a edificare il fascismo e il nazismo fu una scelta: una scelta che oggi (con eccezioni sempre più frequenti) giudichiamo atroce, ma che non possiamo considerare semplicemente irrazionale, come un raptus collettivo.

Per questo 25 Aprile allora voglio consigliare due libri che, in forme diverse, affrontano lo stesso tema: quello di fornire una spiegazione razionale – e non per questo meno terribile, anzi! – del nazismo e dell’Olocausto.

Del primo, Le benevole di Jonathan Littel, scrissi anni fa qui. A distanza di anni, il racconto in prima persona dell’ufficiale nazista Maximilian Aue e del suo percorso nella burocrazia del Reich e all’interno dell’industria dello sterminio rimane ancora uno dei romanzi più potenti che abbia mai letto.

Il morto nel bunker – Indagine su mio padre di Martin Pollack (ed. Keller, 2018), che ho letto da poco, è subito entrato in risonanza con il ricordo di alcuni passi particolarmente vividi del romanzo di Littel: in particolare con le pagine che descrivono le vicende dei Bergjuden.

Il fittizio ma realistico Maximilian Aue de Le benevole racconta le discussioni “accademiche” tra etnologi e filologi nazisti per determinare se gli ebrei del Caucaso appartenessero anche alla “razza” o soltanto alla religione ebraica: una discussione il cui esito avrebbe determinato lo sterminio o la sopravvivenza di un’intera popolazione. Uno dei pochi personaggi positivi del romanzo è lo studioso nazista che, consapevole delle conseguenze, promuove la tesi della mera appartenenza religiosa dei Bergjuden all’ebraismo.

Gerhard Bast, il protagonista de Il morto nel bunker, invece non è un personaggio di fantasia, ma un autentico ufficiale della Gestapo nazista nonché il padre biologico dell’autore, che non l’ha mai conosciuto. Martin Pollack comincia da un rifugio in Sudtirolo un percorso di ricerca che si sviluppa su livelli diversi: un viaggio geografico che parte dal Sudtirolo, dove Gerhard è stato trovato morto poco dopo la guerra, si snoda attraverso la Slovenia e l’Austria meridionale in cui aveva origine la sua famiglia, prosegue dopo l’Anschluss nei capoluoghi della Germania nazista e nei territori occupati dalle armate del Reich, compreso il Caucaso, seguendo l’ascesa del padre nella gerarchia della Gestapo e delle SS, e termina nuovamente in Sudtirolo, chiudendo il cerchio là dove l’aveva iniziato.

Ma il libro è soprattutto un viaggio nelle pieghe della mente umana, individuale e collettiva: l’autore cerca di spiegare – e prima di tutto spiegarsi – come è stato possibile realizzare quel Male, su quella scala, con quella brutalità. In questo viaggio, dal nazionalismo delle minoranze tedesche nella Slovenia austroungarica all’antisemitismo nazista, la strada è continua: non ci sono salti dovuti a follia, ma un percorso terribilmente coerente, frutto delle scelte individuali di tutti coloro che hanno avuto una parte nello sterminio. In questo contesto, le azioni di un “nazista qualunque” sono ingranaggi di un unico meccanismo burocratico, in cui le persone uccise sono numeri, obiettivi da raggiungere per compiacere un capo e ottenere una promozione, tra una vacanza sugli sci e una visita ai parenti.

A rendere il tutto più coinvolgente e “vicino”, infine, c’è il viaggio dell’autore nell’inferno delle sue origini familiari: raccontare come il padre sia stato un consapevole agente del Male, spiegarsi come siano state le sue scelte, e non una semplice casualità storica, a determinarne le azioni, è l’unica via per ottenere la catarsi, che passa soltanto dall’assunzione delle responsabilità delle scelte individuali.

Soltanto nella misura in cui capiamo che il nazismo e il fascismo furono frutto di scelte consapevoli, possiamo dare valore alle scelte di segno opposto. E soltanto se comprendiamo che questa scelta si riduce in fondo a quella tra il partito degli sfruttatori e quello degli sfruttati, senza via di mezzo, possiamo decidere da che parte stare.

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