Oscar

Domenica sono stati assegnati gli Oscar 2019. Nemmeno stavolta sono d’accordo con la scelta del miglior film, che è caduta ingiustamente ma non imprevedibilmente, su Green Book. Uscendo dal cinema, l’avevo definito “un film anti-razzista che sicuramente sarà piaciuto a Salvini“.

La trama ormai la conosce anche chi non l’ha visto. Stati Uniti 1962: Don Shirley, pianista afroamericano di successo e di enorme talento, ingaggia Tony Vallelonga, un rozzo buttafuori italo-americano, come autista e “uomo di mano” in vista di una tournée negli Stati del Sud.

Il viaggio si rivelerà una sorta di discesa nell’inferno del pregiudizio e della segregazione razziale – simboleggiata dal Green Book, una sorta di guida per i viaggiatori di colore in cui erano elencati alberghi ed esercizi pubblici “friendly“. Entrambi i personaggi ne riemergeranno con nuove consapevolezze: Tony supererà i propri stessi pregiudizi, mentre Don… boh, non è del tutto chiaro, ma ci torneremo.

Partiamo proprio dal viaggio dei due protagonisti – interpretati meravigliosamente da Mahershala Ali (meritato premio Oscar come miglior attore non protagonista) e Viggo Mortensen (che francamente avrebbe meritato più di Rami Malek il premio come miglior protagonista).

Il percorso di Tony Vallelonga è cristallino: all’inizio della vicenda è un sempliciotto pure un po’ meschino, prigioniero della propria ignoranza e dei pregiudizi che il suo ambiente sociale nutre verso gli afroamericani. Un po’ didascalicamente (che è un po’ la cifra di tutto il film), lo vediamo ad esempio buttare via due bicchieri di vetro con cui la moglie – di tutt’altra pasta – ha offerto dell’acqua a due operai di colore.

Accetta il lavoro perché è ben pagato, senza capirne inizialmente le implicazioni, e nutrendo una profonda diffidenza nei confronti dell’austero Don Shirley. Ma nel corso del viaggio impara a vedere oltre le apparenze e finisce per indignarsi per il fatto che una persona come lui venga trattata diversamente solo per il colore della pelle. A dire la verità, il momento chiave di questa trasformazione è rappresentato nella scena in cui un agente di polizia lo insulta sostenendo che, in quanto “mangiaspaghetti”, non è poi tanto meglio del “negro con cui viaggia”: scopre così a sue spese che tutti quanti siamo in fondo il “negro” (o il “terrone”) di qualcun altro ed è proprio questo, sembra, ciò che gli fa aprire gli occhi.

Il personaggio di Don Shirley è più complesso: in realtà è lui il vero protagonista del film. All’inizio del viaggio è un ricco intellettuale afroamericano perfettamente integrato (ci dicono) nella buona società newyorkese. Abita in una specie di torre d’avorio letteralmente sopra il Madison Square Garden con l’unica compagnia di un servitore indiano. I due musicisti che lo accompagnano nella tournée rivelano a un certo punto le motivazioni che lo hanno spinto a intraprendere il suo viaggio nel Sud: in buona sostanza, dimostrare di essere all’altezza del pubblico di bianchi razzisti che assisterà ai suoi spettacoli.

Nella prima parte della storia, in realtà, questo “essere all’altezza” si traduce nel prendere le distanze dagli afroamericani “normali” (dunque mediamente poveri) che affollano gli alberghi riservati ai neri, cercando invece di mischiarsi con i bianchi benestanti. Ma in un crescendo di esperienze brutali deve rendersi conto che questo non è possibile, finché è il buon Tony, nella scena più drammatica del film, a spiattellargli in faccia l’amara realtà: il ricco artista è troppo nero per essere accettato dai bianchi della sua estrazione sociale, che lo vedono al più come una straordinaria scimmia ammaestrata, ma troppo intriso dalla cultura dei bianchi per essere accettato dai neri come “uno di loro”. Ed ecco la soluzione: la sera prima della vigilia di Natale, Don si rifiuta di suonare all’ultimo dei concerti programmati; si rifugia con Tony in un locale “per neri” dove prima suona un brano di Chopin – la musica che ama ma che i bianchi non vogliono sentire suonare a un nero – e poi si unisce a un’allegra jazz band del posto: nero fra i neri. Infine, tornato a New York, si unisce alla famiglia del buon Tony per i festeggiamenti di Natale, superando di slancio l’iniziale sconcerto degli altri “mangiaspaghetti”. La morale sembrerebbe essere: “siate voi stessi, non cercate di essere ciò che non siete, e vedete di scendere dalla torre d’avorio”.

In effetti, a ben vedere, il tema davvero principale di Green Book non è affatto il razzismo, ma la realizzazione di sé. Non si spiega altrimenti come possano non comparire nemmeno sullo sfondo le lotte che proprio nello stesso periodo di ambientazione del film scuotevano gli stati del sud degli USA: dal boicottaggio degli autobus di Montgomery agli scontri dell’Università del Mississipi (di pochi mesi precedenti rispetto agli eventi del film).

Il razzismo è di fatto poco più che un pretesto narrativo; la storia edificante dell’amicizia tra Don e Tony del resto non contiene alcuna ricetta universale. La “conversione” di Tony, e dei suoi parenti alla cena di Natale, è una storia consolatoria buona per i salotti della buona società della civilizzata New York (e per il red carpet di Hollywood), ma a conti fatti si basa sul presupposto che il nero da accettare sia un uomo ricco e di successo. Un po’ come Toni Iwobi eletto con Salvini: e sarebbe pure quello un Green Book (ok, questa è una provocazione, e una pessima battuta).

Al netto di questo equivoco – che però è esattamente la ragione per cui è stato premiato – Green Book è un film godibile (alcune gag sono esilaranti) sostenuto oltretutto da due interpretazioni mostruose. Ma la scelta di premiarlo come miglior film è davvero pavida, specialmente considerato che in concorso c’era una pellicola come BlaKkKlansman di Spike Lee (che non ho ancora visto perché Martina l’aveva visto in anteprima e non mi piace andare al cinema da solo, ma mi fido della sua recensione su FantasyMagazine).

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