La lezione di Almaviva

Pochi giorni fa il Tribunale di Roma ha disposto con diverse ordinanze la reintegrazione di centocinquantatre lavoratori di Almaviva che erano stati licenziati lo scorso 22 dicembre.

Sono una parte dei 1666 dipendenti, tutti della sede di Roma, che avevano perso il posto dopo aver rifiutato un accordo sindacale che prevedeva la cancellazione degli scatti di anzianità e il taglio quasi integrale del TFR. I dipendenti della sede di Napoli, inizialmente coinvolti nella procedura di licenziamento collettivo, erano stati salvati alla fine proprio perché avevano accettato queste e altre condizioni-capestro, finalizzate ad allineare il costo del loro lavoro a quello inferiore dei precari impiegati diffusamente nelle altre sedi.

La pronuncia del Tribunale di Roma, pubblicata il 16 novembre, è importante e merita di essere spiegata e commentata perché fissa alcuni principi fondamentali.

Nel ricorso i lavoratori sostenevano (in estrema sintesi) che si trattasse di un licenziamento discriminatorio motivato in sostanza dalla volontà di punire proprio i lavoratori che avevano rifiutato un accordo sindacale di fatto ricattatorio. L’azienda infatti, avendo dichiarato all’inizio della procedura collettiva l’intenzione di licenziare un certo numero di lavoratori, avrebbe dovuto sceglierli fra tutti quelli di tutte le sedi, non limitandosi a quelli della sede di Roma. Le motivazioni indicate da Almaviva per giustificare la limitazione della scelta ai soli romani – scrivevano i difensori – erano del tutto inconsistenti e rivelavano l’intento discriminatorio. La legge (e la giurisprudenza costante) infatti prevede che in caso di licenziamento collettivo, la scelta dei lavoratori da licenziare deve essere effettuata sull’intero organico, e non solo tra i lavoratori del reparto o della sede interessata dall’esubero. Con la conseguenza che anche nel caso in cui il licenziamento sia motivato dalla chiusura definitiva di una delle varie sedi – come nel caso di Almaviva – non è comunque consentito automaticamente licenziare tutti e soltanto gli addetti a quella sede, ma è in ogni caso sempre necessario scegliere tra tutti i dipendenti di tutte le sedi, a meno che non siano indicate e poi dimostrate le ragioni tecnico-produttive e organizzative per le quali è necessario che il campo della scelta sia ridotto. La scelta poi deve essere compiuta in base ai criteri di legge (anzianità di servizio, carichi familiari, ragioni tecnico-produttive e organizzative) o in base a eventuali altri criteri stabiliti con accordi sindacali.

Almaviva, in sostanza, giustificava in due modi il fatto di aver scelto i lavoratori da licenziare non tra tutti i dipendenti di tutte le sedi, ma solo tra quelli della sede di Roma in procinto di essere chiusa, contro la norma generale: da un lato, l’accordo sindacale del 22 dicembre 2016 – ossia quello con cui si tagliavano stipendi etc. – avrebbe consentito anche la deroga sulla platea di applicazione dei criteri di scelta; dall’altro, ci sarebbero state ragioni tecniche riconducibili di fatto all’infungibilità dei lavoratori, ossia all’estrema difficoltà di trasferirli da una sede all’altra e da una commessa all’altra, sia per la lontananza geografica tra le varie sedi, sia per la diversità delle commesse assegnate alle varie sedi e alla necessità di una lunga formazione.

Il Tribunale di Roma, accogliendo il ricorso dei lavoratori, ha spazzato via tutte le giustificazioni dell’azienda. Quanto all’accordo sindacale – ha ritenuto il giudice – non consentiva affatto una deroga ai criteri legali, e se l’avesse fatto sarebbe stato illegittimo perché discriminatorio e contrario a principi costituzionali; in ogni caso le ragioni della deroga avrebbero dovuto essere indicate già al momento dell’inizio della procedura, nella fase di avvio delle consultazioni sindacali, e non soltanto pochi giorni prima dei licenziamenti.

Le presunte ragioni tecniche invocate da Almaviva, poi, non sono risultate credibili: posto che la quasi totalità dei dipendenti è costituita da operatori di call center, è stato dimostrato (e del resto è notorio) da un lato che i lavoratori del call center vengono spostati spesso da una commessa all’altra, e dall’altro che per spostare le commesse da una sede all’altra, cosa che avviene frequentemente e anche più volte al giorno, è sufficiente premere un pulsante. Gli interventi formativi necessari per consentire lo spostamento dei lavoratori di Roma in altre sedi e su altre commesse, dunque, si sarebbero ridotti a ben poca cosa.

Peraltro è stato verificato che le commesse in lavorazione a Roma alla data dei licenziamenti, alcune delle quali già all’epoca erano gestite anche da altre sedi, sono quasi tutte proseguite e semplicemente spostate su altre sedi (previa assunzione di nuovi lavoratori, a costo minore): dunque, oltre all’evidente inesistenza di qualsiasi difficoltà tecnica che impedisse di spostare personale e commesse, è stato dimostrato che la necessità di ridurre il personale, ammesso che esistesse, non riguardava affatto la sola sede di Roma e perciò a maggior ragione non avrebbe dovuto impattare soltanto sui lavoratori romani.

Per quale motivo allora – si chiede il tribunale – i licenziamenti sono stati concentrati in quella sede e tra quei lavoratori? L’unica differenza tra i romani e gli altri dipendenti Almaviva – è la risposta – consisteva nel diverso costo di lavoro: nelle altre sedi il massiccio ricorso al lavoro precario consentiva di abbassarlo, e questo stesso risultato era stato perseguito dall’azienda con gli accordi sindacali accettati dai dipendenti napoletani – per questo salvati – e rifiutati dai romani – buttati dalla torre.

Ma questo non è un criterio di scelta legittimo: è una discriminazione.

Vale la pena citare per esteso il fulcro della motivazione del Tribunale di Roma: “appare evidente che tale scelta, e quindi anche l’accordo del 22.12.2016 se si aderisce all’interpretazione dello stesso di Almaviva, si risolve in una vera e propria illegittima discriminazione: chi non accetta di vedersi abbattere la retribuzione (a parità di orario e di mansioni) e lo stesso tfr, in spregio dell’art. 2103 cod. civ, dell’art. 36 e di numerosi altri precetti costituzionali ancora vigenti, viene licenziato e chi accetta viene invece salvato. Un messaggio davvero inquietante anche per il futuro e che si traduce comunque in una condotta illegittima perché attribuisce valore decisivo ai fini della scelta dei lavoratori da licenziare, pur se tramite lo schermo dell’accordo sindacale, ad un fattore (il maggiore costo del personale di una certa sede rispetto ad altre) che per legge è invece del tutto irrilevante a questo fine.

Un messaggio davvero inquietante, che per una volta è stato rispedito al mittente grazie alla determinazione dei lavoratori che hanno rifiutato il ricatto (e all’abilità dei difensori che li hanno assistiti) nonostante i funesti consigli di gran parte delle burocrazie sindacali.

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