Timeo Lettas et incentiva ferentes

Temo i Letta [plurale, vale pure lo zio] anche quando portano regali. Specialmente perché i regali sono destinati agli imprenditori e non ai lavoratori né ai disoccupati

Nonostante l’enfasi con cui il “pacchetto lavoro” è stato lanciato nei giorni scorsi, non tutti – anzi, probabilmente in pochi – sanno in concreto di che cosa si tratti. L’attenzione mediatica è stata assorbita quasi interamente dalla questione degli incentivi alle assunzioni stabili, che chiaramente non sono altro che un’operazione propagandistica. I numeri sono piuttosto chiari: sono stanziati 100 milioni di Euro per il 2013, 150 milioni per il 2014 e per il 2015, 100 milioni per il 2016; considerando che l’incentivo copre un terzo dello stipendio per 18 mesi, calcolando (tenendoci bassi) 450 Euro al mese di contributo (contando anche la tredicesima), significa che ne beneficeranno, al massimo, tra i 10.000 e i 15.000 lavoratori all’anno. Senza neppure considerare il fatto che i disoccupati tra i 18 e i 29 anni, stando alle ultime rilevazioni ISTAT, sono all’incirca un milione, è poi tutto da dimostrare che queste 10-15.000 assunzioni saranno “in più” rispetto a quelle che sarebbero comunque state effettuate (secondo le statistiche della CGIA di Mestre le nuove assunzioni non stagionali di under 29 solo nel primo semestre 2013 sono state all’incirca 60.000). In altre parole, l’incentivo è soltanto l’ennesimo regalo a quelle aziende che comunque avrebbero assunto a tempo indeterminato.

Insomma, la solita paraculata usata come cortina fumogena, con l’aiuto ributtante dei mass media, per nascondere la solita, immancabile fregatura.

La fregatura riguarda, ancora una volta, i contratti a tempo determinato: mentre con una mano il governo finge di incentivare le assunzioni stabili, con l’altra rende per davvero ancora più facili quelle precarie. Come? In due modi. Il primo, anticipato già da qualche settimana, è la drastica riduzione del periodo che deve passare tra la scadenza di un contratto a termine e la stipula del successivo, con la stessa azienda: la Fornero, probabilmente per sbaglio, aveva allungato questo periodo fino a 60 giorni per contratti brevi, e 90 giorni per contratti ultrasemestrali; ora i periodi vengono ridotti rispettivamente a 10 o 20 giorni, in modo che il precario possa essere inserito nel ciclo produttivo senza fastidiosi stacchi e sia anche sotto questo aspetto completamente intercambiabile con un dipendente stabile.

L’altro strumento è l’eliminazione graduale dell’obbligo della causale, ossia della necessità di indicare nel contratto la ragione concreta per cui l’assunzione è a termine (eccezione) e non a tempo indeterminato (regola, solo in teoria). La riforma Fornero aveva tirato il primo colpo di piccone a questo sistema, consentendo la stipula di contratti senza causale nel caso di prima assunzione a termine (o in somministrazione, tramite agenzia) di durata inferiore a un anno, comunque non prorogabile, e consentendo a certe condizioni alla contrattazione collettiva di prevedere altre ipotesi di esonero dall’obbligo. Il pacchetto lavoro approfondisce l’attacco: da un lato, liberalizza completamente la possibilità di escludere l’obbligo attraverso accordi sindacali, anche aziendali; dall’altro consente di prorogare i contratti originariamente stipulati senza causale. Non è specificato se con la proroga si possa superare o meno l’anno, e questo sarà oggetto di discussioni.

Quello che è chiaro è lo scopo dell’intervento del governo Letta: regalare al padronato la facoltà di poter sostituire pressoché integralmente il personale con più esperienza (e salari più alti per via di livelli superiori e anzianità acquisiti o di altri diritti conquistati in periodi di vacche grasse) con altro a costo di saldo, senza però smenarci in termini di competenza e formazione. L’Istat ha calcolato che la differenza media di salario fra dipendenti con almeno 15 anni di anzianità e neoassunti è del 61%: mica un regalo da poco!

Il tutto avviene, come sempre, nel nome del rilancio dell’economia e dell’attrattiva per gli investitori stranieri. Ricordo che a una conferenza in università nel 1999 la Prof. Mariella Magnani, allieva del Treu del “pacchetto Treu”, difese l’introduzione in larga scala della flessibilità con questi stessi argomenti. Sono passati 15 anni, la flessibilità non ha fatto che aumentare mentre salari, occupazione e investimenti produttivi non hanno fatto che diminuire proporzionalmente: sarà un caso? No di certo. Se gli imprenditori, italiani e stranieri, non sono disposti a investire in Italia a meno di poter contare su una pioggia di finanziamenti pubblici a fondo perduto, non è perché gli stipendi sono troppo alti (il costo del lavoro non incide per più del 6% dei costi complessivi della produzione, sosteneva Marchionne nel 2006), ma semplicemente perché contano di guadagnare di più spendendo quei soldi in altri modi – ad esempio in speculazioni immobiliari.

Di fronte alla logica del profitto, né gli incentivi né la precarietà totale servono a rilanciare l’occupazione, sono solo un regalo alle aziende che assumerebbero comunque (un regalo fatto con i soldi nostri, nel primo caso, e con la vita dei lavoratori e delle loro famiglie, nel secondo). È proprio la logica del profitto che va spazzata via alla radice.

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