Cartagena. Gli ultimi della Tortuga

Se a Natale vi hanno regalato un libro che avevate già, e avete la possibilità di andare a cambiarlo in libreria, vi suggerisco di prendere al suo posto l’ultimo romanzo di Valerio Evangelisti.

Siamo nel 1697, una dozzina di anni dopo le vicende narrate in Tortuga, primo libro del ciclo dei pirati proseguito con il prequel” Veracruz. I Fratelli della Costa, invecchiati e decimati e privati della loro base sull’isola della Tortuga, sono “richiamati in servizio” come ausiliari della flotta di Sua Maestà Luigi XIV: il Roi Soleil spinto dalla necessità di rimpinguare le casse del regno per finanziare le sue imprese nel Vecchio Continente, ha ordinato una spedizione per depredare la ricca città spagnola di Cartagena, nell’attuale Colombia.

L’impresa si svolge nella tensione crescente fra i pirati, a stento controllati dal governatore Ducasse, e l’esercito francese guidato dall’ammiraglio De Pointis. A muoversi fra i due campi è Martin d’Orlhac, ufficialmente al servizio della flotta francese con l’incarico di infiltrarsi nelle schiere della filibusta: è il suo sguardo, filtrato da un passato da tagliaborse nei vicoli di Parigi, a narrare tutte le vicende.

Se siete affezionati all’immagine avventurosa, romantica e scanzonata della pirateria, ai “nobili” furfanti á la Jack Sparrow per intenderci, sarete molto delusi da come, anche nel terzo capitolo del suo ciclo, l’autore descrive i filibustieri e le loro imprese. Nessuna possibilità di immedesimarsi in personaggi che espressamente non hanno altro scopo che ottenere per sé tutto quel che possono, privi di qualunque spessore morale. Nella pagina finale dei Fratelli della Costa non c’è più spazio neppure per la tragica e angosciante  grandezza di un Cavaliere De Grammont; lo stesso capitano Lorencillo, ultimo capo carismatico della filibusta, apparirà soltanto alla fine per porre il proprio epitaffio sulla vicenda e sui destini della pirateria nei Caraibi.

Non sono amabili, i pirati di Valerio Evangelisti, ma certamente sono personaggi moderni, i veri fondatori della società in cui viviamo. Da questa natura nasce il conflitto insanabile con il vecchio mondo feudale incarnato nell’aristocrazia: che siano i nemici spagnoli o gli “alleati” francesi (tra i quali, benché avversari, è naturale la fraternizzazione), i nobili sono portatori di un modello di società che alla fine del Seicento è marcio come la stessa Cartagena dopo la conquista, ed è pronto a essere rovesciato. Il disprezzo che i pirati provano per l’aristocrazia, del resto, non è connotato moralmente ma è puro calcolo economico; quel sistema, semplicemente, ha smesso di estrarre in modo efficiente valore dallo sfruttamento del lavoro: “Noi avventurieri siamo più furbi di questi smidollati di coloni. Sappiamo che uno schiavo liberato farà le stesse cose di un negro in catene, ma con più gusto. L’importante è che si creda libero. Pagato quanto gli schiavi, obbligato allo stesso lavoro, ma con l’illusione di farlo per sua scelta. Se i francesi di qui lo capiranno, i negri in catene smetteranno di suicidarsi e la prosperità delle Antille inizierà davvero“.

In fondo, ma pure abbastanza vicino alla superficie, sono parole rivolte all’oggi: il talento di Valerio Evangelisti risiede proprio in questa capacità di distillare da ogni storia, che sia ambientata nel futuro o nell’Europa del medioevo, nei Caraibi del Seicento, nel Messico dell’Ottocento o negli Stati Uniti del Novecento, un’essenza universale, in grado di aiutare a chiarire le dinamiche costanti che muovono la società, quelle della lotta di classe.

Il profitto degli zuccherifici nasce dalla differenza fra i due soldi necessari a mantenere uno schiavo e il prezzo di mercato di ciò che produce.

Ridotta all’estrema sintesi e descritta con le parole che avrebbe usato un avventuriero alla fine del XVII secolo, è la teoria del valore alla base dell’economia di mercato: dal punto di vista dei pirati, rappresentanti emblematici della classe sfruttatrice emergente, tutto si riduce, più o meno consapevolmente, a come ottimizzare lo sfruttamento.  A ben vedere, la vicenda della filibusta non è neppure una vera e propria metafora della nostra società, ma semmai è un ritorno all’origine, agli elementi fondamentali.

Se a scrivere il romanzo fosse un autore meno capace di Evangelisti, ci sarebbe il rischio di una narrazione didascalica; ancora più che in altri libri, il pericolo è ampiamente evitato: l’assenza di qualsiasi empatia nei confronti dei personaggi è sì finalizzata a consentirci di osservare e comprendere chiaramente lo schema più ampio, ma è anche conseguenza del tutto naturale della descrizione delle loro caratteristiche morali.

Una delle possibili chiavi di interpretazione dell’intero ciclo risiede nella figura delle tre donne, che svolgono funzioni del tutto analoghe in ciascun romanzo. Oggetto del desiderio del protagonista-narratore in quella che neppure lontanamente somiglia a una “storia d’amore”: l’amore non è infatti un sentimento possibile in un mondo in cui tutto è inquadrato nello schema del profitto. Eppure tutte raccontano una storia di liberazione, di vera e propria “rivoluzione” rispetto ai valori dominanti: sono perciò l’unica vera “coscienza” della storia, e insieme l’unica prospettiva davvero alternativa e in grado di spezzare la catena dello sfruttamento. La ripetizione di questa sottotrama in ciascuno dei romanzi, perciò, è tutt’altro che scontata, ma al contrario è una straordinaria dimostrazione di sensibilità, offre uno spunto originale e prezioso per riflettere e comprendere sia l’opera che la nostra società.

Tutto si tiene alla perfezione dunque, dall’inizio alla fine: a degna conclusione del loro ciclo, i Fratelli della Costa si scioglieranno, non prima di aver gettato i semi della nuova società sulle due sponde dell’Atlantico.

Altro che Jack Sparrow.

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