Melancholia

Buio in sala. Sullo schermo scorre una lunga sequenza di immagini rallentate, fotogrammi dalla Fine del Mondo. Si sente soltanto la musica, il Preludio di Tristano e Isotta di Wagner, potente e straziante. Le immagini sono quadri in movimento, vere e proprie cartoline dall’Apocalisse di inquietante e perfetta fattura: percezioni oniriche si alternano a sequenze spaziali della collisione di un corpo celeste con la Terra, effetti e causa dell’inevitabile distruzione finale.

La bellezza della sequenza è travolgente. Prima ancora che inizi il film (ancora non abbiamo letto sullo schermo il titolo) la consapevolezza della Fine ci cattura in un’atmosfera di splendida e angosciante disperazione, una cornice creata apposta per consentirci di sperimentare con intensità, almeno per due ore, la stessa Depressione dei personaggi di Lars Von Trier.

La vicenda è narrata in due parti, incentrate rispettivamente sulle sorelle Justine e Claire. Nella prima si racconta l’autodistruzione del mondo di Justine, che si sviluppa simbolicamente nell’arco di una notte, quella del suo matrimonio. Justine ha tutto: è bella, benestante, stimata, ha appena sposato un uomo innamorato di lei e ha ricevuto una promozione sul lavoro. Le basta una notte per fare a pezzi tutto quello che ha, ogni suo gesto la sprofonda un po’ di più nell’abisso, eppure si compiace, si crogiola in questa caduta e sprofonda un po’ di più. Non servono a nulla i consigli affettuosi della sorella né quelli “pratici” del cognato; non l’aiuta l’atteggiamento cinico della madre né quello sdrammatizzante del padre: la via è tracciata e Justine la segue con la precisione di un filo a piombo, senza deviare di un millimetro. È un manuale sulla fenomenologia della depressione, sui tentativi più o meno goffi o presuntuosi di “guarirla” o quantomeno di rapportarsi a essa. La prima verità che racconta Lars Von Trier è che la depressione è un assoluto da cui non vi è salvezza: comunque la si giudichi, che la si accetti o meno, è irrilevante.

Che cos’è la depressione se non la percezione di cadere in un abisso senza avere vie d’uscita? Nella seconda parte del film, dedicata alla sorella giudiziosa Claire, questo tema è affidato alla metafora del pianeta che sta per schiantarsi sulla Terra. Ciascun personaggio, di fronte alla certezza della distruzione, reagisce in maniera diversa. Assistiamo così al fallimento sia dell’approccio razionale del positivista John, sia di quello emotivo ma pieno di buon senso di Claire: la ragione non è in grado di abbracciare l’enormità di una Fine inevitabile e assoluta, il buon senso aiuta nelle situazioni normali ma di fronte a circostanze e sentimenti eccezionali è utile come una canna da pesca nella savana.

Nessuno si salva, naturalmente, ma a non essere presi dal panico sono soltanto il piccolo Leo, figlio di John e Claire, che semplicemente rimane del tutto inconsapevole di ciò che sta accadendo, e soprattutto Justine, l’unica a mantenere fino alla fine dignità e umanità. La ragione della sua superiorità anche morale risiede nella sua capacità di accettare la Fine, avendo da tempo rinunciato a comprenderla razionalmente e tantomeno a combatterla. Emblema del film è la scena in cui la protagonista è stesa nuda nell’erba, illuminata dalla luce verde notturna di Melancholia: accettarla senza condizioni è l’unica possibilità di convivere con la malattia, ed è al contempo la descrizione fedele della voluttà con cui il malato si abbandona alla propria depressione.

Noi siamo spettatori ma al tempo stesso siamo coinvolti – temporaneamente – nelle stesse esperienze dei personaggi: l’immedesimazione di ciascuno in John, Claire, Leo o Justine viene spontanea ed è incoraggiata in modo efficace.

L’interpretazione di Kirsten Dunst, Charlotte Gainsbourg e Kiefer Sutherland dà ai personaggi una profondità e una credibilità straordinarie, davvero in grado di contribuire a rendere convincente la tesi dell’autore. Che la si condivida o meno non ha alcuna importanza: Melancholia sarà sicuramente sul mio podio personale dei migliori film del 2011.

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One comment

  1. Complimenti per l’ottima analisi del significato. Ma in particolare condivido il tuo giudizio sulla direzione degli attori, che ho trovato eccezionale e – come dici tu ed è giusto che sia – trascende il “messaggio” affidatogli.

    Un periodo, particolarmente importante, lo riformulerei così.
    “La superiorità di Justine consiste nella sua capacità di affrontare la Fine in maniera non razionale, anzi con una fede che è animata dalla malattia stessa”.

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