I poveri e il reddito di cittadinanza

La scorsa estate l’Istat ha pubblicato un rapporto sulla povertà in Italia: è una lettura inquietante ma sicuramente utile. Si stima che nel 2017, date determinate soglie di povertà assoluta e relativa (variabili a seconda dell’area geografica, dell’età, della composizione del nucleo familiare), in Italia vi fossero quasi 2 milioni di famiglie, ossia circa 5 milioni di individui, in condizioni di povertà assoluta, e oltre 3 milioni di famiglie, ossia più di 9 milioni di persone, in condizioni di povertà relativa.

Il 28 gennaio è stato finalmente pubblicato in Gazzetta Ufficiale il testo definitivo del decreto-legge che istituisce il c.d. “reddito di cittadinanza”, ossia il singolo attesissimo provvedimento che, nelle parole del ministro del lavoro Luigi Di Maio, dovrebbe avere “abolito la povertà“.

Io sono notoriamente un precisino, e la prima cosa che mi colpisce è il fatto che una norma di legge renda “ufficiale” l’utilizzo dell’espressione “reddito di cittadinanza” per indicare qualcosa che non è affatto un reddito di cittadinanza, perlomeno secondo la nozione scientifica di questo concetto: il RdC infatti teoricamente è un importo che viene elargito dallo Stato a tutti i cittadini, indipendentemente dal loro reddito e illimitatamente; quella approvata dal governo invece è un’integrazione destinata ai redditi più bassi, per giunta soggetta a mille vincoli e condizioni.

Detto questo, e tenuti a mente i numeri dell’Istat, balza subito agli occhi la sproporzione tra la platea di potenziali destinatari e le risorse destinate dal governo a questa misura: per il 2019 meno di 6 miliardi di Euro; a regime, dal 2020 in avanti, una cifra fra i 7,5 e gli 8 miliardi di Euro. Ora, se la matematica non è un’opinione, 7,5 miliardi di Euro diviso 5 milioni di individui in condizioni di povertà assoluta fa 1.500,00 Euro all’anno per ciascuno, in media. Calcolando invece per ciascuna famiglia, sono poco più di 4.000,00 Euro all’anno, sempre ovviamente in media. Naturalmente il calcolo è un po’ più complicato: non tutti percepiranno lo stesso importo perché andranno detratti i redditi, sia pur minimi, percepiti. Ma l’ordine di grandezza è questo.

Definirlo “reddito” suona davvero piuttosto sarcastico – ed è un sarcasmo di cattivo gusto perché è sulla pelle dei più poveri. Si tratta invece di un’elemosina. Anzi, neppure. Perché un’elemosina in genere è qualcosa che si dà senza chiedere nulla in cambio, mossi soltanto da spirito caritatevole. Il decreto-legge invece prevede da un lato condizioni difficili per il riconoscimento; dall’altro obblighi punitivi per quei pochi che ce la fanno.

Per “meritare” il reddito di cittadinanza, innanzitutto, bisogna essere davvero poverissimi: la soglia di reddito, per fare alcuni esempi, è di 6.000,00 Euro annui per chi vive da solo, 8.400,00 Euro per una coppia senza figli, 10.800,00 Euro per una coppia con due figli minori; la soglia è elevata di una quota modesta, fino a un massimo di circa 3.000,00 Euro all’anno, se si sta in affitto o si paga un mutuo. Il decreto è tutto pervaso da angosciosa paranoia contro il rischio che tra i beneficiari del RdC finisca anche qualche finto-povero: se può aver senso negare il sostegno a chi detiene imbarcazioni da diporto, mi pare più ingiustificato il vincolo per cui nessun componente del nucleo familiare del richiedente deve aver comprato un’auto nuova nei sei mesi precedenti, o addirittura nei due anni precedenti se si tratta di automobili con cilindrata superiore a 1.6 o motocicli con cilindrata superiore a 250 cc. E neppure si ha diritto al RdC se uno dei propri familiari, nei dodici mesi precedenti la richiesta, ha dato le dimissioni (tranne, bontà del legislatore, se si tratti di dimissioni per giusta causa).

Ma non basta essere poveri. Si deve anche essere disperati al punto da essere disposti a tutto, o quasi. Il RdC infatti è condizionato alla sottoscrizione di un “patto per il lavoro” che prevede, da un lato, l’obbligo del beneficiario di “offrire la propria disponibilità per la partecipazione a progetti a titolarità dei comuni, utili alla collettività, in ambito culturale, sociale, artistico, ambientale, formativo e di tutela dei beni comuni, da svolgere presso il medesimo comune di residenza“, per “un massimo” di otto ore settimanali. In pratica, deve lavorare otto ore alla settimana per il Comune, che potrà utilizzarlo per una gamma di occupazioni che spaziano dall’usciere allo spazzino. Indovinate che cosa faranno i Comuni, stretti da vincoli di bilancio draconiani e dai tagli crescenti del governo agli enti locali? Per ogni cinque poveri obbligati a lavorare per poter ricevere 200 Euro al mese di RdC, si sbarazzeranno di un dipendente (diretto, o più facilmente di qualche cooperativa sociale) a tempo pieno e del relativo stipendio.

C’è poi l’obbligo di accettare offerte di lavoro “congrue”. Questo vincolo per la verità era stato introdotto dal Jobs Act con riferimento alla NASpI, ossia alla vecchia indennità di disoccupazione. Il governo Renzi aveva stabilito che la congruità dovesse valutarsi in base alla coerenza con le esperienze e competenze maturate, alla distanza dal domicilio (misurata anche in base al tempo di trasferimento con mezzi pubblici), alla durata della disoccupazione e alla retribuzione, superiore di almeno il 20% rispetto all’indennità di disoccupazione percepita. Per il RdC, che sarà una somma considerevolmente inferiore all’indennità di NASpI, valgono tutti gli stessi criteri  – ma una retribuzione superiore del 20% rispetto al reddito percepito potrebbe anche essere  di 300 Euro al mese! – ma quelli della distanza e della durata della disoccupazione vengono precisati con una semplice tabellina:

  • nei primi 12 mesi di fruizione del beneficio, è congrua un’offerta entro cento chilometri di distanza dalla residenza del beneficiario o comunque raggiungibile in cento minuti con i mezzi di
    trasporto pubblici, se si tratta di prima offerta, ovvero entro duecentocinquanta chilometri di distanza se si tratta di seconda offerta, ovvero, ovunque collocata nel territorio italiano se si tratta di terza offerta;
  • dopo 12 mesi, è congrua un’offerta entro duecentocinquanta chilometri di distanza nel caso di prima o seconda offerta, ovvero ovunque collocata nel territorio italiano se è la terza;
  • in caso di rinnovo del beneficio, dunque dopo 18 mesi, è congrua un’offerta ovunque sia collocata nel territorio italiano anche nel caso si tratti di prima offerta.

Non c’è bisogno di ulteriori commenti.

Tra le fasce deboli della popolazione – i 5 milioni di “poveri assoluti” e i 9 milioni di “poveri relativi” – il Reddito di Cittadinanza ha suscitato enormi aspettative fin dalla campagna elettorale: il Movimento 5 Stelle ha conquistato tra le classi meno abbienti le percentuali maggiori. Ora che la misura è stata finalmente annunciata, l’attesa è destinata a diventare spasmodica. È facile anche pensare che ci saranno casi non infrequenti di domande avanzate da poveri non abbastanza poveri da meritare il RdC, e perfino di “relativamente poveri” che, pur di provare ad arrotondare le proprie entrate, saranno disposti a mentire su qualche requisito. Mal gliene incolga! Per costoro ci sarà il carcere, da due a sei anni. E per giunta, anche nel caso che dopo la condanna diventassero davvero abbastanza poveri, non potranno più chiedere il RdC per dieci anni. Per essere sicuri che nessuno sfugga alla mannaia della legge, sono mobilitati per decreto i servizi ispettivi dell’INPS, dell’Agenzia delle Entrate e dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro, oltre ai centri per l’impiego e ai comuni. Avremo una quantità di Sceriffi di Nottingham a caccia dei poveri che nascondono le monete nell’ingessatura della gamba, e ancora meno risorse per indagare sull’evasione contributiva e fiscale degli imprenditori, sul lavoro nero, sulle centinaia di migliaia di violazioni piccole o grandi da parte dei datori di lavoro.

Non è l’unico regalo alle imprese contenuto nel decreto. Infatti è previsto che al datore di lavoro che assuma soggetti beneficiari del RdC venga riconosciuto l’esonero dai contributi in misura pari al reddito che il lavoratore avrebbe percepito (fino al diciottesimo mese di RdC) e comunque non inferiore a cinque mensilità. Parliamo di qualche migliaio di Euro per ogni nuovo assunto: soldi sottratti all’INPS, salvo poi giustificare i prossimi tagli delle pensioni con la mancanza di risorse. In pratica, una partita di giro di cui a beneficiare sono sempre i soliti, come con gli incentivi del governo Renzi, a cui Di Maio e soci somigliano sempre di più.

Nei prossimi mesi il consenso verso questo governo è destinato ad aumentare, o quantomeno a non calare. È troppo forte – e assolutamente comprensibile – il desiderio dei tantissimi ultimi di questo paese di credere di poter avere benefici concreti. Ma quando arriveranno le prime, numerose lettere dell’INPS che respinge le domande, e i primi assegni di molto inferiori alle aspettative, allora il vento comincerà a cambiare. Fino ad allora, disprezzare e schernire i poveri, accusarli di voler vivere da parassiti, è prima di tutto sbagliato e immorale, e in secondo luogo anche molto stupido. Chi ha meno merita di avere di più, ma potrà averlo soltanto strappandolo ai profitti dei padroni.

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2 comments

  1. Sei comunista, perché parlare nel 2019 di “padroni” fa un po’ ridere, ma non sei uno stupido.

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