L’estate è il periodo dei cinema sotto le stelle e delle rassegne di seconda visione. Se non l’avete ancora visto, non fatevi sfuggire l’occasione di vedere sul grande schermo 28 anni dopo: il film di Danny Boyle è finora senza dubbio il più interessante visto quest’anno.
In un casolare sperduto nel nord della Scozia, un gruppo di bambini terrorizzati è rinchiuso in una stanza: mentre sulla televisione accesa scorrono le immagini dei Teletubbies, da fuori giungono suoni convulsi e inquietanti. Gli infetti sono arrivati fin qui, si salverà soltanto il piccolo Jimmy.
28 anni dopo l’epidemia di rabbia che in soli 28 giorni cancellò la civiltà dalle isole britanniche, ormai da decenni in stretta quarantena dal resto del mondo, un piccolo villaggio delle Highland resiste ora e sempre al virus, protetto dall’alta marea che separa il suo isolotto dalla terra ferma.
E sulla terra ferma il dodicenne Spike, incoraggiato da due ali di folla festante, saluta la madre malata e si avvia a seguire il padre, uno dei migliori guerrieri del villaggio, in un vero e proprio rito di passaggio: la sua prima uccisione di un infetto.
Il viaggio lo cambierà per sempre, ma forse non nel modo in cui suo padre sperava.
DA QUI IN AVANTI TROVERETE NUMEROSI SPOILER
Gli oltre due decenni trascorsi dall’iconico 28 giorni dopo non hanno tolto un briciolo di smalto dalla coppia creativa formata dal regista Danny Boyle e dallo sceneggiatore Alex Garland; al contrario, hanno aggiunto profondità e maturità alla loro visione del mondo e della vita, senza intaccare la loro capacità di imprimerla sulla pellicola e negli occhi degli spettatori con sequenze visivamente strabilianti.
Come nella migliore tradizione del genere, l’apocalisse-zombie (qui nella versione “infetti”) è una lente rovesciata per osservare la nostra società e per scoprirne i valori di fondo, che il collasso della cosiddetta civiltà fa emergere nel modo più crudo.
La storia si svolge in una realtà alternativa in cui la Gran Bretagna, i cui governi nel nostro presente hanno scelto di impedire agli immigrati di raggiungerla, è essa stessa reietta dal resto del pianeta, isolata in una quarantena inviolabile.
Jamie, il padre del giovane Spike, è il portatore dei valori dominanti della società sopravvissuta: appare come un uomo forte e impavido, rispettato dalla comunità, marito tenero nei confronti della moglie malata e padre premuroso verso il figlio che accompagna nella sua iniziazione sulla terra ferma, un vero e proprio “viaggio dell’eroe guerriero”.
È proprio in questo viaggio che emerge non il “lato oscuro”, ma la vera natura di quei valori: l’intera spedizione fuori dalle porte del villaggio ha lo scopo di mostrare gli infetti non come pericoli a cui sfuggire, ma come esseri inferiori da uccidere senza pietà, e anche senza motivo.
La giustificazione di Jamie per vincere la riluttanza del figlio a “Uccidere, uccidere, uccidere” è che si tratta di creature senza raziocinio, per le quali non si può e non si deve provare compassione.
E che la violenza nei confronti di chi riteniamo naturalmente inferiore non sia un accidente, bensì un tratto fondante della “civiltà occidentale”, Boyle lo racconta con il montaggio inserendo nelle sequenze di “caccia” fotogrammi di battaglie medievali, di parate militari in bianco e nero, di guerre del passato.
Con il procedere della vicenda, diventa sempre più chiaro che la forza è sopraffazione e volontà di dominio, il coraggio è irresponsabilità, e la stessa premura di Jamie nei confronti del figlio è in realtà desiderio di imporgli la propria visione del mondo.
Se da un lato il padre di Spike rappresenta un modello di società – la nostra – che è intriso di “virilità tossica”, dall’altro il personaggio di Isla, la madre del ragazzo, mostra che un’altra strada è possibile: quella della compassione e dell’accettazione di sé – una contrapposizione già esplorata in modo efficace, ad esempio, nel controverso Episodio VIII di Star Wars.
Questa è la vera novità del sequel rispetto all’originale, in cui questo tema era sì presente (in particolare nel personaggio del tassista Frank) ma non approfondito.
In 28 anni dopo invece diventa centrale, tanto da essere sviluppato in un secondo “viaggio dell’eroe”, speculare al primo, in cui Spike accompagna non più il padre, eroe guerriero, ma la madre malata, fragile ma non per questo debole.
Questo è il punto cruciale: nella visione di Boyle e Garland, Isla non è meno forte, né meno coraggiosa di Jamie; è altrettanto capace di proteggere il figlio e, soprattutto, di prepararlo alla vita in un mondo durissimo.
Il modello che gli propone, antitetico a quello del marito, è quello dell’empatia e della compassione, che non significa arrendevolezza o remissività ma capacità di “sentire con gli altri” e rispettarli, anche e specialmente quando appartengono a un’altra cultura – quando ci sembrano, letteralmente, mostri.
Ad aiutarla a veicolare il messaggio, al ragazzo e agli spettatori, è il personaggio del Dottor Kelson. Fin dalla sua prima apparizione, è evidente che il personaggio è modellato sul Kurtz di Apocalypse Now: lo ricorda esplicitamente nell’estetica, nella fama di “pazzo” – o meglio “impazzito” – che lo avvolge, nel fatto stesso che per raggiungerlo i protagonisti debbano addentrarsi in una foresta letale e, ovviamente, perché vive in un “tempio” interamente formato da teschi umani, proprio come il celebre colonnello decorava il suo tempio nella giungla con teste mozzate.
Proprio come Kurtz, Kelson mostra quanto sia sottile il confine tra civiltà e stato selvaggio, e quanto sia facile varcarlo: solo che nel suo caso il passaggio è nella direzione opposta, dalla cultura della sopraffazione che rappresenta il modello dominante nella società (quella di Jamie che è anche la nostra) a una visione più elevata dell’umanità, fondata sull’empatia e sulla capacità, il coraggio di accettare la propria sorte e i propri limiti, senza comunque rinunciare a cambiarla e a superarli.
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La storia principale termina con il ritorno di Spike al villaggio. È lui ora l’eroe, ma non siamo sicuri di quali siano i valori che ha riportato con sé dopo il suo duplice viaggio: è necessaria una nuova partenza, un nuovo viaggio per scoprirli.
E a quanto pare questo nuovo viaggio avrà un nuovo mentore, completamente diverso sia da Jamie che da Isla: è il piccolo Jimmy, che nei 28 anni trascorsi dall’incipit del film è diventato grande, e proprio mentre Spike sta per essere sopraffatto da un gruppo di infetti compare provvidenzialmente con la sua banda di allegri e acrobatici killer, sgargianti come i Teletubbies della sequenza iniziale e apparentemente privi di coscienza sociale come i Drughi di Arancia Meccanica.
“Sono Jimmy, diventiamo amici”, è la battuta finale del film. Lo spettacolare massacro che la precede (oltre a introdurre l’annunciato sequel della pellicola) vuole certamente provocare negli spettatori un effetto straniante e alleggerire il tono del racconto evitando che sia troppo didascalico, ma forse serve anche ad accompagnarci all’uscita del cinema con la consapevolezza che il mondo immaginato da Isla e da Kelson, oggi, è davvero una fantasia.
Speriamo che per realizzarla non servano altri 28 anni.