Chissà come ci si deve sentire a scrivere e far approvare una legge, e poi vedersela smontata pezzo dopo pezzo, anno dopo anno, sentenza dopo sentenza dalla Corte Costituzionale. Ho idea che in realtà l’autore e i promotori del Jobs Act non provino neppure un poco di imbarazzo, per non dire di vergogna.
Nemmeno oggi, all’indomani dell’ennesima pronuncia (la sentenza n. 118/2025) con cui la Corte ha cancellato un altro pezzetto della legge-manifesto del mai rimpianto governo Renzi.
Sotto l’accetta dei magistrati è finita questa volta la norma che riguarda le sanzioni inflitte, in caso di licenziamento dichiarato illegittimo, alle imprese con meno di 16 dipendenti, e in particolare quella parte dell’art. 9, comma 1, del D.lgs. n. 23/2015 che stabilisce un tetto massimo di 6 mesi di stipendio al risarcimento del danno.
Il risultato è analogo a quello che avrebbe ottenuto il successo del secondo quesito al referendum di giugno: si consente da oggi di differenziare le sanzioni in base alla reale dimensione economica dell’impresa che ha commesso l’illecito, mantenendo il minimo di 3 mensilità (che rappresenta pur sempre un deterrente per le aziende davvero “piccole”), ma triplicando il risarcimento massimo, che passa da 6 a 18 mensilità, per quelle imprese (pensiamo alle filiali italiane di multinazionali, specie nel settore dei servizi) che pur avendo meno di 16 dipendenti hanno fatturati da sei zeri in su.
Certo, questo non impedirà alle imprese di continuare a liberarsi in modo spesso pretestuoso dei lavoratori meno graditi, ma quantomeno renderà più difficilmente predeterminabile il “costo” aziendale dei licenziamenti illegittimi, e in generale potrebbe innalzare in modo significativo la tutela di un gran numero di lavoratori.
Naturalmente dovremo vedere come i giudici dei tribunali applicheranno la novità: anche in quella trincea limitata che sono le aule di giustizia, la battaglia non finisce mai.