I referendum dell’8 e 9 giugno: terzo quesito

Continua il conto alla rovescia verso il referendum dei prossimi 8 e 9 giugno: tocca al terzo quesito, relativo ai contratti a termine (qui trovate il commento precedente sul quarto quesito).

Il terzo quesito referendario ha una formulazione piuttosto oscura, resa purtroppo inevitabile dalla formulazione a sua volta cervellotica della norma di legge che si propone di abrogare. La sostanza del quesito è però piuttosto semplice da spiegare, ma per farlo è necessario fare un passo indietro.

Il contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato costituisce la forma comune di rapporto di lavoro”: l’articolo 1 del Jobs Act in materia di contratti precari è un capolavoro di ipocrisia, considerato che è con questo decreto che è stata portata a compimento la liberalizzazione dei contratti a termine iniziata tre anni prima con la riforma Fornero.

Lo strumento principale di questa liberalizzazione consisteva nell’eliminazione dell’obbligo della causale, ossia dell’obbligo di prevedere e indicare per iscritto, al momento dell’assunzione, le ragioni per cui il contratto viene stipulato non a tempo indeterminato (forma comune) bensì con una scadenza (forma eccezionale).

Attualmente, dopo le modifiche introdotte dal Decreto Dignità del 2018, l’obbligo di indicare la causale (inizialmente eliminato per tutti i contratti) esiste soltanto per quelli che, fin dall’origine oppure a seguito di proroghe o rinnovi, hanno durata superiore a un anno. La stipula di contratti di durata inferiore invece è completamente libera.

Con la conseguenza non certo di limitare la diffusione dei contratti precari, bensì che la maggior parte dei contratti a termine hanno durata breve o brevissima (spesso anche poche settimane, quando non addirittura pochi giorni).

Il terzo quesito referendario, proponendo di abrogare il riferimento ai contratti “liberi” di durata inferiore a un anno, punta a ripristinare l’obbligo di indicare la causale per tutti i contratti a termine (con la sola eccezione di quelli di durata fino a dodici giorni).

L’effetto, in caso di vittoria, sarebbe potenzialmente dirompente.

Si tornerebbe in buona sostanza al modello precedente alla riforma Fornero, che consentiva ai lavoratori di impugnare i contratti a termine denunciando l’assenza di reali e legittime motivazioni, ottenendo per questa via, nella maggior parte dei casi, la trasformazione del rapporto a tempo indeterminato e un risarcimento del danno. Anche se va detto che, nel frattempo, il novero delle causali consentite, che prima era rigido, è stato reso più flessibile dal momento che la loro individuazione è affidata ai singoli contratti collettivi.

Ovviamente, in ogni caso, non è per via giudiziale che si può sperare di porre un freno realmente efficace al dramma della precarietà – del resto i contratti a termine erano numerosi anche prima della riforma Fornero, da quando il disgraziato “Pacchetto Treu” quindici anni prima ne aveva incentivato l’utilizzo.

Ciò non toglie che il reinserimento dell’obbligo della causale – specie se accompagnato da un sistema di controlli adeguato – costituirebbe un deterrente importante e renderebbe molto più rischioso per le imprese abusare dei contratti a tempo determinato, oltre a rappresentare la prima vera inversione di tendenza nella legislazione sul lavoro precario negli ultimi 15 anni.

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