Dittator Fanfogna

Il racconto Dittator Fanfogna è stato scritto insieme ad Alessandro Pirovano per la raccolta Tifiamo Scaramouche, spin off collettivo dal romanzo dei WuMing, L’armata dei Sonnambuli. La raccolta completa è scaricabile da qui (e ne vale decisamente la pena!)

Dittator Fanfogna

Lombardia e Dalmacija

1915-1919

 

 

 

1.

 

«No, no e no, metti giù quelle manacce, puzzone d’un italiano! La frutta è per il Signor Conte!».

«Ma lo sai che è ben altro il frutto che vorrei coglie…».

Non fece in tempo a pronunciare l’ultima sillaba che fu investito da un ceffone a mano aperta. Zarja riprese il cesto e lo superò affettando indignazione.

Leo viveva tra la servitù di Palazzo Fanfogna dall’inizio di quell’anno 1919. Subito dopo l’armistizio si era tolto qualche sassolino dalle scarpe e così, a Trieste, aveva scambiato la divisa degli Arditi con abiti civili e un cappotto, e aveva cominciato il suo pellegrinaggio lungo la costa orientale dell’Adriatico. In Italia non ci poteva restare: il Vendicatore delle Trincee aveva troppi nemici e i peggiori stavano proprio a Mortara.

I confini tra l’Italia e il Regno dei serbi, croati e sloveni – che i più chiamavano Jugoslavia – parevano però spostarsi più velocemente di lui. Parenzo, Rovigno, Pola: un giorno inalberavano il vessillo dei Savoia e il giorno successivo quello di Pietro I, quando non entrambi.

Soltanto dopo Sebenico non aveva più visto bandiere tricolori e perciò si era sistemato nella prima cittadina che aveva incontrato lungo la costa, un villaggio grazioso di un migliaio di abitanti che i croati chiamavano Trogir e gli italiani, relativamente numerosi, Traù. Lì, però, ogni tentativo di ottenere un lavoro in una delle tante botteghe gestite da croati si era rivelato inutile, finché non si era rassegnato a chiedere un impiego al conte Fanfogna, che l’aveva assunto come factotum. Non era entusiasta di servire un nobile che per giunta non faceva mistero delle sue idee irredentiste, ma se non altro aveva di che mangiare e dormire, e perfino qualche soldo per la taverna.

Dopo un ultimo sguardo al sedere di Zarja, Leo si fermò sull’uscio del salone, dove il conte Giovanni Antonio III Fanfogna aveva radunato per pranzo tutto il notabilato italiano della città. Il pasto volgeva al termine, e dalla stanza proveniva il rumore festoso dei brindisi: «Al Vate D’Annunzio!», «All’impresa di Fiume!», «Ai legionari!».

Al cenno del padrone il ragazzo si avvicinò all’allegra tavolata e si esibì in un goffo inchino: «Mi avete fatto chiamare, signor Conte».

«Infatti. Voglio la be’lina e i cavalli p’onti t’a un’o’a».

«Certamente signor Conte, vado ad avvisare lo stalliere».

«Se avessi voluto avvisa’e lo stallie’e, av’ei convocato lui e non te, sciocco! P’ovvedi pe’sonalmente a tutto, mi accompagne’ai tu. Vai».

Senza più degnarlo di uno sguardo, Fanfogna si volse nuovamente verso i suoi commensali.

 

 

 

2.

 

Il sole tramontava sul mare avvolgendo d’oro la cittadina quando Leo e il conte rientrarono a palazzo. Prima di congedarlo, Fanfogna si rivolse al servitore: «Non occo’e di’e che non fa’ai pa’ola con nessuno di dove siamo stati».

La raccomandazione era superflua, sia perché Leo non aveva idea di cosa fosse andato a fare il conte a Bristivica, se non che aveva incontrato un certo Mariani ufficiale dell’esercito italiano, sia perché non avrebbe saputo a chi raccontarlo: gli italiani erano pochissimi tra la servitù, pressoché tutti anziani al servizio dei Fanfogna da generazioni. Con loro Leo non aveva quasi alcun rapporto e con i croati meno ancora, con la parziale eccezione di Zarja, grazie alla quale aveva imparato quel poco di croato che sapeva.

Dalla ragazza seppe qualche giorno dopo che il conte aveva ordinato di preparare tutte le stanze degli ospiti per quella sera: il 22 settembre. Non si conosceva l’identità degli invitati e Leo non collegò la notizia con la spedizione segreta del conte, anzi la dimenticò subito. Quella notte aveva altro per la mente.

Erano passate le 23:00 quando si presentò davanti alla porta dello stanzino della ragazza reggendo una grossa fetta di torta sottratta alla cena del conte. Bussò piano, ma non ebbe risposta; picchiò un po’ più forte: silenzio. Quando finalmente udì la voce di Zarja, questa non proveniva dalla sua stanza ma dal piano di sotto, dove erano alloggiati gli ospiti: gridava.

Il piatto si frantumò sul pavimento. Leo corse a perdifiato verso il suo sgabuzzino, svuotò sul giaciglio la sua sacca e frugò a tentoni nella penombra finché non trovò quel che cercava. Si precipitò verso la stanza da cui proveniva il trambusto e sentì una voce maschile imprecare in italiano: «Stai ferma, puttana! Ferma, cagna di una slava! Te lo do io quel che ti meriti!».

Spalancò la porta e vide Zarja gettata sul letto, in lacrime, la camicia strappata; l’uomo vestiva ancora la parte di sopra della divisa da ufficiale e le tirava con una mano i capelli biondi, mentre con l’altra cercava affannosamente di abbassarsi i calzoni e allo stesso tempo di deviare i calci disperati della ragazza.

«Porco, levale le mani di dosso» lo apostrofò il giovane cercando di mantenere ferma la voce.

«E tu chi cazzo saresti, imbecille?» chiese incredulo il militare mollando la presa sulla ragazza per riallacciarsi i pantaloni.

«Io sono quello che sta per spaccarti la faccia, ma se preferisci puoi chiamarmi Scaramouche» rispose il giovane. Quindi levò il randello che teneva dietro la schiena e lo scaricò con violenza sulla testa dell’uomo. Il corpo dell’ufficiale rotolò giù dal letto e Leo lo scostò con un calcio, quindi sedette di fianco a Zarja, che se ne stava ritratta e tremante stringendosi le ginocchia.

Le cinse le spalle cercando di tranquillizzarla.

«Va tutto bene, è finita» le sussurrò in croato.

La ragazza sollevò il capo, stava per dire qualcosa ma subito il suo sguardo si riempì di terrore.

Leo si voltò, l’ufficiale era scomparso.

«Allarme! Allarme!» lo sentì chiamare dal corridoio.

Il giovane valutò rapidamente la situazione mentre molti passi si avvicinavano di corsa. Uscire dalla porta era fuori discussione, c’era solo un’altra via.

«Oh merda, al diavolo!». Spalancata la finestra, Leo si lanciò nel vuoto, protendendo le mani verso le fronde di un grande abete. Riuscì ad aggrapparsi per un momento, poi il ramo si spezzò e il ragazzo precipitò nel vuoto. La maschera impigliata nel fogliame si sfilò e poi gli cadde accanto. Fu l’ultima cosa che vide, la maschera…

 

 

 

3.

 

Il magazzino polveroso dei costumi. La fuga dietro le quinte del teatro.

La maschera.

Per aria frammenti di locandine e volantini: Teatro comunale di Mortara, 23 febbraio 1915…

La maschera ha un lungo naso bianco, due piccole fessure per gli occhi.

Manzoni, il Professore, gli grida di sparire dietro le quinte, forse si sente responsabile per averlo portato lì.

Indossa la maschera per nascondersi.

I carabinieri invadono la sala col manganello in pugno, picchiano chi non riesce a fuggire, arrestano chi protesta.

Con la maschera sul volto non dovrà più scappare, sarà invisibile.

Volano gli insulti, si viene alle mani, era tutto organizzato: il delegato di pubblica sicurezza ha fatto entrare i carabinieri a sgombrare la sala.

Con la maschera sul volto si osserva: no, non invisibile, qualcosa di meglio.

Dal pubblico partono bordate di fischi, è un provocatore dice Manzoni, un gruppetto dall’aria truce grida: «Viva l’Italia!».

Con la maschera sul volto e indosso il mantello sotto cui si era nascosto, incuterà terrore.

Uno di fuori ha chiesto la parola, è un avvocato di Novara, dice Manzoni: «Guerra per Trento e per Trieste, guerra contro l’Austria!» grida.

Con la maschera e il mantello darà guerra a chi non desidera che guerra.

Un altro frammento…

Parlerà il compagno Luigi Bonometti. Ha parlato per dieci minuti appena: pace, lavoro, salario, applausi scroscianti.

Con la maschera e il mantello sarà un simbolo di riscossa per chi non desidera che pace, lavoro, salario.

«Che ci fai con su la maschera di Scaramouche?» chiede il professore quando tutto è finito e i carabinieri sono usciti dal teatro.

Scaramouche, sarà questo il nome: la scena adesso sarà sua.

 

 

 

4.

 

Si svegliò di soprassalto sbattendo la testa contro la parete di pietra. Lanciò un’imprecazione.

«Ecco l’acqua per il prigioniero!» sentì sghignazzare una voce rozza, seguita dal rumore metallico di un catenaccio.

Per un attimo pensò di essere ancora nella prigione di Vigevano, dove aveva trascorso tre mesi dopo lo sciopero del 1917. Poi cominciò a ricordare: la maschera, il ramo spezzato, Zarja…

«Zarja!» esclamò ad alta voce.

Con un certo sforzo riuscì ad alzarsi e mosse qualche passo verso le sbarre: impossibile forzarle. Poi la vide, la maschera di Scaramouche, appoggiata sul tavolaccio al centro della stanza.

Gli venne un’idea. Con un po’ di fanghiglia raccolta da terra si impiastricciò il naso e intorno agli occhi, si sdraiò e chiamò lamentoso: «Guardia! Ah, i miei occhi!».

Sopraggiunse il piantone: «Che diavolo vuoi? Che hai da lamentarti?».

«Mettimi la mia maschera, presto! O la piaga si estenderà come lebbra, sarete tutti contagiati!».

Il soldato scrutò nella penombra attraverso le sbarre, vide il volto sfigurato del prigioniero e si ritrasse inorridito, si precipitò a prendere la maschera e aprì la cella.

«Devi mettermela tu, io non riesco a muovermi… presto!» lo incoraggiò il ragazzo.

Il militare si avvicinò e fece per chinarsi, il capo voltato dall’altra parte, il braccio proteso verso il malato. Leo gli serrò il polso con una mano, con l’altra gli sbatté violentemente la testa contro il pavimento. Quindi si pulì alla meglio la faccia e si aggiustò la maschera. Raccolse dal tavolo chiavi, sigarette e fiammiferi abbandonati dalla guardia e scese l’unica rampa di scale.

«Chi sei?» lo apostrofò in croato una voce non appena si affacciò al piano inferiore.

«Uno che odia i soldati, e voi?» rispose rivolto al gruppetto di persone affollate dietro la porta di un’altra cella.

«Io mi chiamo Tomaž Šećer, sono il segretario della sezione di Trogir del Partito Socialista» riprese il primo. «Gli italijanaši hanno occupato la città e nella notte ci hanno imprigionato qui nel Castello del Camerlengo, prima che potessimo organizzare la resistenza. Puoi liberarci?».

La chiave sottratta al piantone scattò nella serratura e un’altra rampa di scale condusse il drappello di fuggiaschi al piano inferiore. Leo si affacciò a una feritoia dopo aver spostato un vecchio cannone polveroso: sotto di loro, nello spiazzo tra il forte e il mare, non c’erano che pochi soldati di guardia e un piccolo autoblindo.

«Siamo nel torrione principale, all’altezza delle mura» riferì Tomaž, che in piedi, su un cumulo di munizioni, scrutava fuori da una grata. «Ci sono solo due sentinelle quassù, ma anche così non so come possiamo uscire».

«Forse un modo c’è» replicò Leo, una mano immersa in un barile di polvere da sparo.

Mentre armeggiava sul cannone, rimesso al suo posto contro la feritoia, spiegò: «Io li distraggo, quando i soldati saranno su di me voi scappate. Liberate la città».

«Sei italiano, non è vero?» chiese il giovane socialista, forse insospettito dalla pronuncia, e senza attendere risposta aggiunse: «Grazie».

Dopo il boato assordante, con le orecchie che fischiavano, Leo si mosse come in trance. Si precipitò sulle mura, colpì un soldato, ne scansò un secondo, ne vide un terzo sollevare la pistola e gli si scagliò contro disarmandolo; altri salivano dal livello inferiore, li travolse correndo giù per i gradini. Durò forse un minuto. Poi si trovò circondato dai militari, dieci fucili puntati contro di lui.

Una figura familiare si fece largo tra i soldati, di fianco a un ufficiale.

«Tenente Ma’iani, dite ai vost’i uomini di disa’ma’e questo manigoldo masche’ato».

«Fanfogna!» esclamò Leo, mentre i militari eseguivano al cenno del loro comandante, afferrandolo e gettando a terra la maschera.

«Conte Fanfogna, o se preferisci Dittato’e» lo corresse. «A quanto pa’e mi sono allevato una se’pe in seno, un amico degli slavi nientemeno. O di una slava in pa’ticola’e? È un peccato che la puttanella sia fuggita stanotte, alt’imenti av’ebbe potuto tene’ti compagnia in p’igione… Beh, po’tate via questo t’adito’e!».

Prima che i soldati potessero eseguire il comando, una sentinella trafelata lanciò l’allarme: «I prigionieri sono scappati!».

«Poco impo’ta» commentò Fanfogna stizzito«la punizione di questo mascalzone se’vi’à da lezione a tutti»

Un colpo di cannone mise il punto alle parole del conte. Proveniva dal mare.

Tutti tacquero, solo il fragore dello sparo riecheggiava tra le mura. A rompere il silenzio fu l’addetto alle trasmissioni, proveniente dalla sua cabina, rivolto a Mariani: «Signore, una comunicazione dall’incrociatore americano Olympia: intimano di cessare il fuoco e consentire il loro sbarco. Hanno sparato un colpo a salve di avvertimento, ma in caso di resistenza bombarderanno il forte».

«Cessare il fuoco? Ma che diav… Oh Cristo! E come glielo spieghiamo che è stato un balordo a sparare?». L’ufficiale posò su Leo uno sguardo carico d’astio e insieme di rassegnazione, quindi sospirò: «Caporale, comunichi agli americani che il loro sbarco è autorizzato».

«Tenente! Non osi da’e o’dini che competono soltanto a me! Nessuno sba’co st’anie’o è auto’izzato, i cittadini di T’aù la difende’anno da tutti gli invaso’i, slavi o ame’icani!».

Raffiche di mitragliatrice provenienti dall’esterno fecero da contrappunto a queste parole.

«Sono gli uomini di T’aù che p’endono le a’mi contro il nemico!» esclamò Fanfogna con soddisfazione.

«È probabile, conte, ma temo che il nemico siamo noi» commentò l’ufficiale con una punta di sarcasmo, quindi si volse e comandò ai suoi uomini di assumere le posizioni di difesa. Rimasero soltanto i due che trattenevano Leo, in attesa di ordini.

Una pattuglia di militari di rientro confermò la previsione di Mariani. «La popolazione slava è insorta! Hanno assaltato la caserma e si sono impadroniti delle armi. Signore, siamo troppo pochi, dobbiamo evacuare la città» riferì al superiore il comandante del drappello.

«Non certo adesso: tanto vale asserragliarsi qua dentro e aspettare che arrivino gli americani. Fate rientrare tutti gli uomini e barricate l’ingresso». Poi, rivolto a Fanfogna, che pareva in trance: «Venite, conte, dobbiamo cercare di raggiungere il vostro palazzo, anche se è dall’altra parte della città: passeremo dalla costa, sperando di non incontrare troppi rivoltosi».

«E di questo qui che cosa dobbiamo farne?» domandò uno dei soldati che custodivano Leo.

«Buttatelo fuori di qua con un calcio nel culo» rispose il superiore, mentre il rumore degli spari si faceva sempre più vicino, quindi si affrettò all’autoblindo parcheggiato all’ingresso del forte, seguito dal mantello svolazzante del conte.

Il nobile non era ancora salito che un gruppo di armati guidato da Tomaž fece irruzione nel castello; finalmente libero dai suoi guardiani. Leo si lanciò verso l’autoblindo ancora fermo ma riuscì solo ad afferrare il mantello di Fanfogna, mentre il mezzo partiva scoppiettando con il conte a bordo.

La maschera di Scaramouche in una mano, il mantello del conte nell’altra, Leo ebbe un’ispirazione. Evitando i proiettili che fischiavano tutto intorno, raggiunse il torrione e salì in cima; sulla sommità svettava una grande bandiera tricolore su cui era ricamata in lettere d’oro la scritta “Fanfogna dittatore di Traù”. Il giovane impugnò il vessillo e gridò sopra il rumore degli spari, in croato: «Cittadini di Trogir!». Qualcuno da sotto vide la figura mascherata avvolta nel mantello, in breve tutti cessarono il fuoco.

«La dittatura del conte Fanfogna è finita! L’occupazione italiana della città è terminata!» proseguì Leo, quindi gettò la bandiera giù dalle mura. Dentro e fuori la fortezza, i croati esplosero in applausi e grida di esultanza; i soldati italiani, meno di una ventina, deposero le armi.

Il ragazzo sorrise, compiaciuto. Finché non vide nella rada la nave con la bandiera a stelle e strisce e comprese che cosa era successo davvero. Glielo confermò Tomaž, che lo intercettò mentre scendeva i gradini: «Sei matto? Levati quella maschera! Sono arrivati gli americani, hanno intimato la resa all’esercito italiano».

A malincuore, Leo gettò maschera e mantello in un angolo e scese dietro il compagno. Nel cortile i soldati italiani consegnavano i fucili, mentre i croati applaudivano e festeggiavano i marinai statunitensi.

 

 

 

5.

 

«Non è sicuro per te girare in città adesso, italiano. Seguimi, ti ospiterò in casa mia».

Attraversarono il centro della cittadina. Sembrava che tutti i croati si fossero riversati nelle strade: ovunque si levavano grida di giubilo e invettive contro gli italijanaši, che nel frattempo si erano rintanati nelle loro case. Leo vide una donna calpestare un tricolore, un ragazzino disarmare un soldato italiano e con la sua stessa pistola obbligarlo a consegnargli la bicicletta. Dopo qualche minuto Tomaž bussò alla porta di una piccola abitazione. Dall’interno una ragazza aprì e gli gettò le braccia al collo: «Sei tornato, grazie al cielo!».

Leo spalancò la bocca ma non riuscì a parlare.

Fu Zarja, altrettanto stupita, a farlo per prima: «E tu che ci fai qui?».

«Vedo che vi conoscete già, dunque non c’è bisogno che ti presenti mia sorella, Leo…» commentò il terzo divertito.

«Possiamo mangiare qualcosa? L’insurrezione mi ha messo appetito».

Dopo un rapido pranzo, Tomaž uscì di nuovo per discutere il da farsi con le autorità cittadine e militari. Senza farsi sentire da Zarja, Leo gli chiese di cercare la sua maschera, nel forte. Quando rimasero soli, la ragazza gli raccontò di come fosse stata aggredita da un ufficiale italiano e salvata da un misterioso, favoloso uomo mascherato. Nel parapiglia seguito alla sua fuga rocambolesca da una finestra, anche lei era riuscita a dileguarsi dal palazzo e a nascondersi a casa del fratello.

«Ero io. Ti amo e avrei dato la mia vita per te» avrebbe voluto rispondere il ragazzo.

Disse invece: «Io non mi ero accorto di nulla, ero uscito stamane a far commissioni per il conte quando mi sono imbattuto in Tomaž, lo conoscevo per via del partito, ma non sapevo fosse tuo fratello».

«E io non sapevo che tu fossi socialista».

«Lo ero, prima della guerra».

 

Tomaž rientrò in serata, raccontò che poco dopo gli americani, tra l’entusiasmo della popolazione, era giunto in città un reggimento dell’esercito serbo-croato da Spalato, mentre una corvetta italiana era alla fonda fuori dal porto.

Trattative concitate, con gli statunitensi a far da mediatori e da garanti, avevano evitato che scoppiasse una guerra tra i due Stati. Le truppe dei Savoia erano rientrate nei loro confini con le pive nel sacco e la maggior parte degli abitanti italiani della città si preparava a seguirle. Fanfogna invece era riuscito a raggiungere il suo palazzo e vi si era barricato dentro, per sfuggire all’arresto da parte delle autorità serbo-croate e, presumibilmente, alla gogna pubblica.

«E Scaramouche? Ci sono notizie dell’eroe mascherato?» chiese trepidante Zarja.

«No, l’ho intravisto durante l’attacco al castello, poi l’ho cercato ma non l’ho trovato. Credo che sia scomparso» rispose Tomaž con lo sguardo rivolto a Leo, che distolse il suo e commentò: «Forse dovrei andarmene anch’io, con gli altri italiani. Non credo ci sia più lavoro a palazzo Fanfogna, e dubito di trovarne un altro in città».

La mattina dopo, di buon’ora, Leo si mise in cammino. Tomaž gli diede qualche soldo e mezza forma di burek, Zarja lo salutò con un abbraccio che gli lasciò il magone e una macchia rossa sulla camicia.

L’unica strada per uscire dal paese passava proprio davanti alla dimora dei Fanfogna. A quell’altezza Leo si accodò a una decina di altri italiani che affiancavano un carro coperto, che probabilmente conteneva mobili e vettovaglie. Volse lo sguardo indietro, verso la cittadina, prima di lasciarla per sempre, e fu allora che vide la scritta:

 

VIVA SCARAMOUCHE

 

Si stagliava scarlatta sul muro, esattamente di fronte al palazzo dell’ex dittatore di Traù. Seppe subito chi l’aveva tracciata e non trattenne un sorriso.

Il carro si fermò all’imbocco del ponte, dove i militari serbo-croati avevano istituito un posto di blocco. Dopo qualche minuto di attesa, dal suo interno si sentì distintamente una voce esclamare: «Avanti! Che aspettiamo a ‘ipa’ti’e!».

Leo scattò immediatamente: «Fermate quel carro!».

La vista di Fanfogna in manette gli restituì definitivamente il buon umore.

 

 

 

Nota storica

 

Il periodico socialista di Mortara Il proletario riporta che il 23 febbraio 1915 nel corso di un comizio contro la guerra presso il Teatro Comunale una «mezza serqua di bambocci in veste nazionalista contestò l’oratore e il delegato di servizio, per i soli fischi emessi, fece sgomberare il teatro: l’ordine venne eseguito con una brutalità senza nome». A causa del putiferio fu necessario nei giorni successivi redigere un inventario delle attrezzature e dei costumi teatrali: tra gli oggetti mancanti figura effettivamente un «costume di scena della maschera Scaramouche».

Nei due anni successivi una persona «abbigliata in guisa di maschera teatrale» fu indicata come artefice di numerose azioni di sabotaggio ai danni dei principali agrari della Lomellina, al punto che nel dicembre 1916 la Regia Prefettura di Pavia assegnò un premio di ben 100 lire per la cattura del pericoloso latitante.

L’ultimo avvistamento in zona risale al maggio 1917 ed è contenuto in una relazione prefettizia sugli scioperi di Vigevano, bloccata per quattro giorni dalla protesta di operai e, soprattutto, operaie. Le forze di polizia arrestarono quattordici scioperanti, tra i quali un certo «Leonardo Bellazzi, di anni 18». L’immediato processo si concluse con tredici condanne per un totale di nove anni e nove mesi, ma le pene furono scontate solo in parte: la disfatta di Caporetto costrinse le autorità ad attingere perfino alle patrie galere per rinsaldare il fronte in vista dell’offensiva che nell’autunno successivo avrebbe raggiunto Gorizia e Trieste. Proprio sul confine orientale terminano le tracce di Leonardo Bellazzi, arruolato tra i Ragazzi del ’99 e inserito nell’elenco dei caduti negli ultimi giorni del conflitto.

La maschera di Scaramouche invece ricompare a Trogir/Traù nel settembre 1919 durante il fallito tentativo irredentista del conte Nino Fanfogna. A menzionarla non è la documentazione italiana bensì quella jugoslava: in particolare il quotidiano Jugoslavija accenna al discorso dal torrione del forte, pur attribuendo il ruolo chiave dell’insurrezione all’intervento americano.

Le fonti statunitensi appaiono più colpite dalla figura dell’eroe mascherato, citato con il nome storpiato di Scarymouse dal senatore dell’Indiana Harry Stewart New in una mozione rivolta al Presidente perché riferisca sullo sbarco americano in Dalmazia. È questa la prima apparizione ufficiale in Nord America di Scaramuccia/Scarymouse, nome che diventerà famoso nelle cronache statunitensi nell’autunno 1920.

 

 

Avvocato Laser (Alessandro Villari) e Alessandro Pirovano

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2 comments

  1. Bella storia. Ho visitato Trogir nell’estate 2017. Il vostro racconto mi è da

    compimento al mio viaggio

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