Il giorno del ricordo

Il confine orientale

Il confine orientale

Sono passati 10 anni da quando il governo a guida Berlusconi, con il plauso del Presidente della Repubblica Napolitano, istituì per ogni 10 febbraio a venire il “giorno del ricordo”, “al fine di conservare e rinnovare la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell’esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra e della più complessa vicenda del confine orientale“.

L’iniziativa era nata con un chiaro intento revisionistico, nell’ambito di quel processo di parificazione dei combattenti su entrambi i fronti della guerra civile seguita al crollo del nazifascismo che sarebbe culminato in varie proposte di legge per equiparare repubblichini a partigiani (l’ultima del 2011, fortunatamente rimasta lettera morta).

Anche quest’anno, con l’approssimarsi della data fatidica, c’è stato un fiorire di documentari, approfondimenti, spettacoli, che hanno come denominatore comune l’esplicito paragone tra la violenza nazifascista e quella dei partigiani jugoslavi, tra le vittime dei campi di concentramento tedeschi e italiani e quelle delle foibe: di fatto a questo viene ridotta la più complessa vicenda del confine orientale, che pure dovrebbe essere oggetto della giornata del ricordo. Alla lunga coda di revisionisti col cappello in mano si è aggiunto infine anche l’artista Simone Cristicchi, che porta in scena in queste settimane lo spettacolo Magazzino 18: questa ottima recensione della ricercatrice Claudia Cernigoi spiega dettagliatamente perché si tratti dell’ennesima porcheria.

Approfitto della giornata di oggi, allora, per pubblicare qui una relazione che avevo preparato tempo fa in una discussione sul tema della Resistenza sul confine orientale. Non si tratta dunque di un testo particolarmente ampio né tantomeno originale, ma piuttosto di una sintesi di altri testi scritti da studiosi come la Cernigoi e Gabriele Donato (in calce sono indicate le fonti) che dell’argomento si sono occupati approfonditamente. Il testo della relazione lo trovate qui.

Sgombrare il campo dall’assurdo e ripugnante paragone tra nazifascisti e partigiani, tra campi di concentramento e foibe, che di anno in anno compie un vero e proprio ribaltamento della verità storica, è purtroppo la necessità più urgente di fronte al revisionismo ormai dilagato.

Dal punto di vista della riflessione politica è però senz’altro più interessante osservare il ruolo nefasto giocato anche in queste vicende dallo stalinismo, sia nella sua versione originale che nella variante titoina: alla teoria del “socialismo in un solo paese” si deve la separazione tra le istanze di liberazione italiana e jugoslava, e l’incapacità di gestire in modo democratico ed equo la questione delle minoranze anche all’interno dello stato jugoslavo.

Un approccio differente verso la necessità di “esportare la rivoluzione” e di unire la classe lavoratrice di tutti i paesi non in base alle esigenze dominanti di uno stato solo, ma allo scopo di favorire un’autentica rivoluzione anche negli altri stati, avrebbe potuto condurre a un finale diverso. La Resistenza italiana, anche sotto l’influsso della vittoria dei socialisti in Jugoslavia, avrebbe potuto essere un altro tassello di una “rivoluzione permanente” che non si è mai verificata, invece di concludersi con una rivoluzione mancata.

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