Cronache di Barbolandia

Un paio di estati fa, in compagnia di Mauro capitai per caso in una specie di universo parallelo, un Paese delle Meraviglie in piena Pavia. Per evitare che il ricordo andasse perduto iniziai a trascriverlo, ma purtroppo l’opera è rimasta incompiuta. Chissà, con l’aiuto del mio compare potrei provare a completarla: è una finestra su un mondo diverso, ma non meno complicato e interessante del nostro.

 

Nel cuore nobile della città di Pavia, di fianco alle “torri civili” e al Cortile Teresiano dell’Università, più esattamente tra l’Istituto di Geografia (a nord) e la Cripta di S. Eusebio (VII sec. d.C., a sud), sorge Barbolandia.

“Sorge” non è forse il termine più appropriato: Barbolandia appare, vive, scompare senza lasciare tracce – tranne, forse, un po’ di puzza tra le panchine.

Ci finiamo per caso, del tutto inconsapevoli, un pomeriggio di inizio agosto. È una domenica afosa e cerchiamo riparo all’ombra degli alberi della piazza delle torri. Un uomo parla a voce alta, con tono ostile: non da solo, si rivolge a un terzetto seduto sulla panchina di fronte alla nostra. Lo irrita evidentemente quell’aria di superiorità che indiscutibilmente si legge nei loro volti, ai quali l’abbronzatura di mezza estate conferisce un aspetto particolarmente sano. E forse è proprio da questa ostentazione di salute che si sente preso in giro, più ancora che dalle espressioni di scherno che i tre si scambiano senza molto pudore.

Se il gradevole aspetto della ragazza al centro del terzetto ci attira dalla loro parte, un senso di pietà e forse di malintesa giustizia ci spinge a simpatizzare di più per il solitario urlatore. Ma qualche birra di troppo nei giorni precedenti e la barba non curata che portiamo non sono evidentemente sufficienti ai suoi occhi a mostrarci come interlocutori affidabili: siamo per lui nemici oggettivi di classe, tanto quanto gli altri, e come loro diveniamo bersaglio delle sue invettive.

Si tratta di invettive alquanto sconnesse, a dire il vero. Più che le singole frasi, è il tono (e il volume) con cui le dice a dimostrare ostilità nei confronti nostri, e in generale di tutto ciò che lo circonda. E ostilità deve provarne pure verso le invisibili, sfuggenti, inesistenti mosche che cerca di afferrare con la mano, sbattendo forte e ripetutamente gli occhi nello sforzo.

All’estremità opposta della radura, un gruppetto di uomini gli rivolge uno sguardo e qualche parola di riprovazione per il suo atteggiamento poco educato. Subito ci sembra che queste altre persone meritino più interesse del primo, e ci spostiamo di qualche panchina per fare la loro conoscenza.

Sono in tre e occupano una panchina a testa: specialmente uno, che la occupa per l’intera lunghezza. Uno di questi volti ci è familiare: per noi è Johnny, qui, più tradizionalmente, Giuàn. Gli rivolgiamo un cenno di saluto, ma è troppo preso dalla discussione in corso per accorgersene.

Parlano di topi: “Secondo una ricerca dell’Università di Pavia, a Pavia ci sono trecentomila topi” “Ma va’, saranno molti di meno” “Trecentomila, è una ricerca ufficiale. Cioè, è strano eh, io non ne ho visti tanti. Qualcuno, sì, ma pochi. Chissà dove sono?”. Ci pensa su, schiocca la lingua contro il palato, attinge brevemente al cartone di Castellino che ha in mano, e si dà una risposta: “Nell’acqua!”

Diverse panchine più in là, nella zona dove eravamo seduti prima, l’individuo irritabile ha evidentemente sentito questa stima e manifesta tutta la sua incredulità con espressioni volgari quanto sconclusionate. Una salva di “Ma sta’ zitto!” mette a tacere le sue argomentazioni. Solo allora i nostri nuovi vicini si rendono conto della nostra presenza, e si rivolgono a noi in tono apologetico: “Dovete scusarlo, non è sempre così”, dice Johnny dopo aver schioccato la lingua in quello che forse è un improvviso lampo di riconoscimento. Uno dei suoi compari commenta, a mo’ di spiegazione, “I dottori, gli psichiatri, studiano una vita e non capiscono un cazzo. Io non ho studiato niente, ma sono un medico più di tutti loro messi insieme. Prendete quello là: altro che psicofarmaci, lo so io come si deve curare. A legnate! Un po’ di botte, e sta tranquillo per due settimane. E dopo, ancora botte!”.

Ci guardiamo stupiti e un po’ preoccupati: in fondo l’ostilità che il tizio ci ha mostrato prima non è sufficiente ad augurargli di essere menato. “Ma perché, l’hanno pestato?” “Certo!” “E chi?” “Ma noi ovviamente, su decreto del Consiglio di Amministrazione del Gruppo Clochard Pavia” dice come se fosse la cosa più naturale del mondo, e con lo stesso tono prosegue “Strano infatti che faccia così, negli ultimi giorni era tranquillo, è raro questo comportamento”. Con l’aria di chi consulta mentalmente un suo scadenziario, quindi, sentenzia rivolto agli altri due, “Verso la fine della prossima settimana dovremo pestarlo di nuovo…”

Siamo come ubriacati da un’improvvisa epifania, ci tornano alla mente testimonianze ascoltate altrove, racconti di tempi mitici e luoghi esotici. Le Cronache, nella persona di Johnny nella fattispecie, parlano di una specie di Comune hippie creata negli Anni Settanta a Milano, nella zona di Brera, da qualche decina di studenti universitari dediti all’alcool e alle droghe e alla vita di strada: la chiamavano “Barbonia City”. Johnny non l’ha mai vista di persona, è come una memoria che si tramanda, e che attraverso di lui è giunta fino a noi. Ci sembra di aver trovato l’Eldorado. Con lo stupore dipinto nei nostri volti, chiediamo con un filo di voce, quasi timorosi che la visione che abbiamo davanti agli occhi possa scomparire da un momento all’altro: “Ma questa, è Barbonia City?”

“No, questa è Barbolandia. Barbonia City è in viale Matteotti” risponde quello che all’apparenza è il leader del gruppo. “Ma quelli là sono dei poco di buono, sono sempre incazzati” aggiunge Johnny, e il capo completa il suo pensiero “Non come noi, che siamo dei barba seri e posati”. Dice proprio così, “seri e posati”. L’orizzonte che ci si spalanca di fronte è uno di cui non sospettavamo l’esistenza: i barboni a Pavia non si limitano a bere, dormire, straparlare, sopravvivere, ma sono coscienti della loro condizione, ne fanno una filosofia di vita, hanno un’etica, una sorta di “codice” non scritto di comportamento, si riconoscono in gruppi che almeno somigliano a comunità organizzate e, addirittura, tra loro rivali.

Ma mentre riflettiamo sull’enormità di tutto ciò, per i barboni siamo tornati ad essere oggetto di scarso interesse, rispetto alla questione non ancora del tutto risolta di quanti topi ci siano effettivamente a Pavia. Cerchiamo allora di inserirci nel discorso, attirando abilmente l’attenzione del nostro ‘contatto’: “Ma quanti sono allora questi topi, Johnny?” “Eh, tanti” risponde lui con il suo caratteristico schiocco, il cartone di vino sempre in mano. “Ma tipo, un milione?” “Eh, no, no” dice scuotendo la testa “saranno – ci pensa su – trecentomila. Tu, Mauro, che cosa dici?” chiede al terzo compare, che fino ad ora è rimasto silenzioso e fisso nella sua posizione orizzontale. Uno stanco scrollare di spalle segnala che almeno lui non trova l’argomento sufficientemente interessante da meritare lo sforzo necessario ad emettere suoni, né tantomeno ad aprire gli occhi.

Ma non vogliamo far cadere nel vuoto la questione: “Chi l’ha detto, Johnny? Perché non è che se ne vedano tanti in giro, di topi” “Eh – skiok! – sono sotto l’acqua” “Ma non è che confondi con le nutrie?” “No no, le nutrie sono un’altra cosa. L’ha detto l’Università di Pavia”. E con questo dirimente argomento d’autorità, non resta altro da aggiungere e la faccenda è chiusa.

Altre curiosità restano da soddisfare, però, a proposito di Università. L’uomo di cui ancora ignoriamo il nome chiede a Johnny quali facoltà ci siano nella sede centrale, proprio a due passi da qui. Sorprendentemente (per noi, almeno), Johnny le elenca tutte, compresa l’apparentemente ostica Comunicazione Interculturale e Multimediale, della cui esistenza non giurerei che tutti gli studenti universitari di Pavia siano a conoscenza. Ma la domanda non è che un pretesto per la successiva battuta del “capo”: “Bisognerebbe farne altre due, una è Interdettologia [a Pavia, i matti sono “interdèt”], e l’altra lo sai qual è, Giuàn?” Johnny pregusta la battuta e comincia a ridacchiare, ma non sa rispondere, e così l’altro conclude “Barbologia!” La risata di Johnny è fragorosa e prolungata, il tempo necessario per elaborare una replica all’altezza: “E per entrare, bisogna essere dei barba! – ride sonoramente – Oppure avere la…” “…Barba!” completa l’altro, mentre Johnny si scompiscia compiaciuto dal sagace gioco di parole. Visto il successo della battuta, il capo insiste: “Hai visto lì, le statue, dentro l’università? Hanno tutte la…” “…Barba!” questa volta è il nostro amico a completare, tra un conato e l’altro di risa. “E quando ci si laurea, si diventa dei barba fatti e finiti” “E con la…” “…Barba!”

Questa idea della facoltà di Barbologia li ha presi bene, e il botta e risposta va avanti ancora un po’ su questo tono, mentre l’ilarità generale non manca di contagiare anche noi. L’idea che il gioco di parole “barba = barbone / barba = peluria sulla faccia” non sia affatto un gioco di parole in fin dei conti, apparentemente non ha attraversato il loro cervello: ma non saremo certo noi a guastare l’allegria del momento.

Ecco invece arrivare un quarto soggetto, dall’aria decisamente malsana. Calvo, la schiena curva sotto il peso di un sacco pieno di stracci, arriva, molla il carico e mostra a Mauro, il capo/medico del gruppo, delle escoriazioni sulle gambe. “L’hai portato il disinfettante per le medicazioni?” Disinfettante? Il nuovo arrivato non se ne ricordava affatto. “Cristo, se me lo dicevi te lo prendevo io, dai preti. Va be’, lo recupero stasera. Intanto sai che cosa facciamo? Ti ci piscio sopra, così disinfetta. Eh, dovevo fare il medico, io!”

Mentre ci auguriamo di non assistere alla scena, riflettiamo che, comunque, c’è del metodo nella follia del capo-barba.

Il ferito, intanto, ha adocchiato il giornale depositato sulla panchina di fianco: “Posso prenderlo?” “Certo”, acconsente il barba-medico. Ed ecco un’altra sorpresa: il barbone prende il giornale e comincia a… leggerlo! (sì, probabilmente più tardi lo userà anche come coperta…)

Nella cronaca del giorno si legge della tentata rapina in un negozio da parte di extra-comunitari. “Certo che è una vergogna: questi vengono qui, ci rubano il lavoro!” A quale lavoro si starà riferendo questo clochard sottoproletario, ci chiediamo io e il mio compagno di osservazione? Intanto, il boss pontifica: “Altro che, per questi qua ci vorrebbe la pena di morte!” (ma per che cosa? per un furto?) Johnny protesta: “Beh, dài, la pena di morte no”. “Ma taci tu, che lo sanno tutti che sei comunista!” “Eh, meglio che tirare le bombe alla povera gente lì, guerrafondaio!”.

Dà le vertigini: non solo c’è una società di barboni, ma in questa società esistono anche una destra e una sinistra riconoscibili, ciascuno ha il proprio ruolo.

 

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