Canto di Natale

Prologo

«Buon Natale un cazzo!» sbraitò Carlo al telefono ormai muto: la centralinista del servizio clienti aveva già riattaccato. Se non altro aveva potuto annullare gli ordini: non avrebbe saputo che farsene dei regali per i suoi genitori dopo il 2 gennaio, come gli era stato annunciato quella mattina dalla mail di Mao-zan, il sito cinese online su cui li aveva acquistati. La colpa del ritardo, neanche a dirlo, era dello sciopero dei facchini di cui si parlava in televisione: maledetti loro e i sindacati che organizzavano quella pagliacciata! Si rassegnò a passare il pomeriggio in cerca di qualcos’altro da regalare ai suoi: occupazione già detestabile di per sé, ma ancora più penosa nella calca della vigilia. Prima però sarebbe passato da casa sua a mollare il miserabile panettone che Ivan, il capo, aveva regalato a tutti i quindici dipendenti del call center: più che un dono una presa in giro, considerato che quel mese non avevano ricevuto ancora lo stipendio, men che meno la tredicesima («C’è un piccolo problema di liquidità, portate pazienza che a gennaio vi saldo tutto»).

La seconda sorpresa della giornata lo attendeva sulla soglia: era Antonio, il padrone di casa sua e di gran parte degli appartamenti del cadente condominio in cui viveva. Pretendeva l’affitto. No, non era un problema suo il ritardo dello stipendio. Il fatto che fosse la vigilia del 25 dicembre significava solo che Carlo era indietro di ventiquattro giorni con il pagamento. Per piacere, facesse in fretta, che aveva un aereo da prendere. Grazie, e buon Natale a lui e alla sua famiglia. Buon Natale un cazzo! ebbe la prontezza di nonrispondergli Carlo, dopo aver prelevato dal cassetto del comodino gli ultimi risparmi. Da fastidiosa, la faccenda dei regali stava diventando proibitiva.

Dopo un paio d’ore di spiacevole e inutile girovagare tra negozi affollati e molesti immigrati in cerca di elemosine, gettò la spugna. A mali estremi, estremi rimedi, pensò entrando nel supermercato sotto casa. Cinque minuti per scegliere un profumo in offerta e una bottiglia di Valpolicella farlocco, mezz’ora di coda alla cassa. Carlo si sentiva fumare le orecchie. A proposito di fumo, meglio comprare un pacchetto di sigarette: gli sarebbe servito per sopravvivere al pranzo con i genitori. Un pacchetto di Camel blu e due gratta e vinci da usare come biglietti di auguri: se mai fossero vincenti, quello sì sarebbe un buon Natale!

Finalmente a casa, Carlo si scaldò una pizza surgelata e se la portò sul divano insieme a un paio di birre. Mentre sbocconcellava la sua squallida cena, accese la Playstation e cominciò a sparare agli zombie. Qualche ora e parecchie lattine dopo, si addormentò con il controller in mano.

Lo Spirito del Natale Passato

«Carlo.»

«Carlo!»

«CARLO!!»

Carlo socchiuse gli occhi e rimase abbagliato. Ciò che vide non appena fu in grado di dare un secondo sguardo lo fece gridare terrorizzato: una sagoma antropomorfa galleggiava nel vuoto ai piedi del divano. Senza pensare le lanciò addosso il controller della Playstation, ma l’oggetto trapassò la figura e terminò la sua corsa contro il termosifone, convalidando il suo atroce sospetto: era un fantasma.

«Esattamente», confermò lo spettro, che evidentemente poteva leggergli nel pensiero, «io sono lo Spirito del Natale Passato. Vieni, ho qualcosa da mostrarti.»

Pareva amichevole. Inoltre somigliava moltissimo a Babbo Natale. Ancora incapace di parlare per via dello spavento, ma con il cuore che pian piano tornava a un battito rassicurante, Carlo osservò il fantasma avvicinarsi al televisore. Si era attivato il salvaschermo con l’animazione di un caminetto dai ceppi crepitanti: un’idea di Chiara, poche settimane prima che si lasciassero. Lo Spirito del Natale Passato entrò nello schermo come se fosse un caminetto vero e cominciò ad arrampicarsi al suo interno. Quando ormai ne vedeva soltanto il poderoso posteriore, lo sentì chiamare:

«Allora, vieni? Non preoccuparti delle fiamme, sono finte!»

Come stregato, Carlo si alzò dal divano e quando fu a un passo dallo schermo vi infilò la mano, il braccio, tutto il resto. Lo spettro lo attendeva in cima, gli diede una mano a tirarsi fuori dal camino. Ma non era un fantasma? Come faceva a dargli la mano? O forse… era morto? Dannazione, avrebbe dovuto guardare la data di scadenza della pizza!

«Tranquillo, non sei morto: è la magia del Natale», gli rispose lo Spirito telepatico e anche un po’ nazionalpopolare, sorridendo. Quindi si levò in volo, tenendolo per mano.

Carlo si stupì di quanto volare non gli sembrasse poi così strano. Si stupì ancora di più vedendo dove lo spettro lo stesse conducendo: erano sopra il piazzale della fabbrica dove suo padre lavorava quando lui era bambino, appena fuori città. Oltre un centinaio di persone affollavano lo spiazzo tra le tende da campo, i tavoli ricolmi di panettoni e bottiglie di spumante, i mucchi di neve spalata: era il Natale del 1984. Carlo lo ricordava bene, vide il piccolo se stesso giocare con i figli degli altri operai; di lì a poco suo padre e altri colleghi avrebbero costruito una fila di pupazzoni, con tanto di cappello a cilindro, e avrebbero invitato i bambini a colpirli con le palle di neve: rappresentavano i padroni della fabbrica, che avevano licenziato un delegato sindacale. Dopo un mese di sciopero, quel giorno di vigilia i padroni avevano ceduto e l’avevano reintegrato. Tutti ridevano, cantavano, mangiavano e bevevano. Lo ricordava come il Natale più felice di tutta la sua vita.

Lo Spirito lo prese nuovamente per mano, volarono sul balcone dell’appartamento dove aveva sempre abitato con la sua famiglia, prima di andare a vivere da solo. Dentro erano tutti riuniti: i suoi genitori, lui con un maglione improbabile e anche Chiara, che aveva conosciuto da pochi mesi ed era stata invitata per la prima volta alla cena di Natale: si lanciavano occhiate da innamorati dei film. Papà e mamma guardavano con tenerezza e con orgoglio quel figlio che era il primo della famiglia a iscriversi all’università. Si brindava: al primo esame che aveva dato pochi giorni prima, all’amore, alla vita che i due giovani avevano davanti. Il Carlo fuori dalla finestra sorrideva osservando il Carlo più giovane, più leggero.

Nuovamente il fantasma lo sollevò in volo. Questa volta la destinazione era il suo luogo di lavoro. L’open space nel seminterrato alla periferia nord della città era addobbato a festa, una dozzina di persone disposte a semicerchio ascoltavano un giovane biondo in piedi su una pedana improvvisata: era Ivan, il suo capo. Carlo era stato appena assunto: il lavoro, come addetto al call center, a dire il vero non era un granché, il contratto  a progetto di sei mesi non era certo il massimo, ma Ivan al colloquio gli aveva promesso che dopo il primo semestre “di prova” avrebbero fatto un contratto a tempo indeterminato, e che se avesse lavorato bene avrebbe potuto diventare team leader.

Un ultimo volo, di nuovo a casa sua, ma l’anno prima. Ivan aveva mantenuto solo in parte la sua promessa: Carlo era diventato team leader, ma sempre a progetto. Se non altro era riuscito a far assumere anche Chiara, sei mesi prima, a progetto. Il contratto della ragazza era scaduto all’inizio del mese e Ivan aveva deciso di non rinnovarglielo. Lei era andata da un avvocato che le aveva consigliato di fare causa e aveva mandato all’azienda una lettera di impugnazione. Ivan gli aveva intimato di convincerla a lasciar perdere, in cambio l’avrebbe assunto con l’indeterminato. Da dentro lo schermo del televisore Carlo vide la scena del suo litigio con Chiara come se fosse un telefilm.

[Risate del pubblico]

«Ragiona, comunque ti ha dato un lavoro, lo sapevi anche tu che il contratto scadeva, non mi sembra corretto adesso fargli la causa.»

«Bel lavoro di merda!»

«Ma se non ti piace neppure il lavoro allora a maggior ragione a che cosa serve impugnare il contratto?»

«Perché ci sono dei diritti e non è giusto che lui li calpesti, con me e con tutti gli altri!»

«Ma almeno aspetta, no? Magari tra qualche mese ci sarà un po’ di lavoro in più e ti riassume.»

«Sì, come no. In sei mesi che sono stata lì sono andati via in tre e assunti altri tre. Gli unici a rimanere sono i suoi fedelissimi… come te.»

«Ma capisci che così mi metti in difficoltà? Ti ho fatto assumere io…»

«Mi fai schifo.»

[Ooooooh del pubblico. Stacco.]

Senza lavoro, Chiara era tornata in Calabria, dai suoi genitori. Quelle erano state le ultime parole che gli aveva rivolto, e gli risuonavano in mente ogni giorno che andava al lavoro.

«Perché?», riuscì solo a sussurrare al fantasma, mentre gli occhi gli si riempivano di lacrime. Non ebbe risposta. Si ritrovò invece sul divano, le guance umide di pianto, il controller della Playstation finito chissà come sotto il termosifone. Nella stanza non c’era nessun altro. Stordito, Carlo si trascinò in camera da letto e si infilò sotto il piumone senza nemmeno spogliarsi.

Il Vampiro del Natale Presente

Si svegliò di soprassalto con la sensazione che qualcosa di terribile stesse per succedere. Gli capitava con una certa frequenza negli ultimi tempi, da quando lo stress del lavoro era aumentato: turni peggiori, ritardi nello stipendio, nessuna certezza su quanto l’azienda sarebbe durata. Allungò la mano verso il flaconcino di valeriana sul comodino e si mise seduto per trangugiarne qualche goccia. Allora la scorse: un’ombra sul pavimento che si allungava dalla porta aperta. La vide dilatarsi, come se stesse allontanandosi dalla fonte di luce che la proiettava, forse la finestra del soggiorno, per avvicinarsi alla stanza da letto. Cominciò a distinguerne i contorni deformati: due mani dalle dita affilate levate sopra una testa perfettamente ovale, le orecchie sporgenti da elfo. Da elfo, oppure…

Il vampiro si affacciò sulla soglia e lo guardò dritto in volto con i suoi occhi spiritati, la bocca socchiusa a scoprire gli osceni canini. Carlo non aveva forze per muoversi, fiato per gridare. Rimaneva fermo, come ipnotizzato dalla creatura che si avvicinava lentamente, un passo alla volta. Alla luce sinistra che sembrava emanare direttamente dal mostro, il ragazzo riconobbe certi dettagli e ne rimase stranito. Il vampiro era orribile ma elegantissimo, in completo nero con doppiopetto in broccato sotto cui splendeva una camicia immacolata, il colletto sollevato a rivelare una cravatta in tono con il vestito, fermata da un diadema d’argento. L’anello che portava al medio era sormontato da un rubino grande come una ciliegia, da una delle orecchie deformi pendeva un diamante quasi altrettanto grande.

«Io sono il Vampiro del Natale Presente», gli sussurrò con inattesa dolcezza quando gli fu vicino, «non temere, ti porto a festeggiare». Così dicendo gli prese la mano e sbatté le palpebre. Carlo si ritrovò con la sua guida sul parapetto di una discoteca. Sotto di lui una folla scatenata si dimenava al ritmo della musica assordante. Un cameriere saliva le scale reggendo un vassoio pieno di ostriche e una bottiglia in un secchiello per il ghiaccio, diretto verso i privè. La creatura gli andò dietro, Carlo chiudeva la fila. Dietro un paravento, un gruppo attendeva impaziente e assetato: un giovane biondo strappò la bottiglia di champagne dalle mani del cameriere. Era Ivan, il suo capo. Carlo si fece piccolo dietro al Vampiro: «Tranquillo, non può vederti», lo rassicurò il mostro.

«Tieni bello!», urlò Ivan al cameriere infilandogli una banconota da 200 Euro nel taschino. Quattro ragazze seminude e tre giovani eleganti quasi quanto il vampiro si avventarono sulle ostriche ridendo sguaiate, mentre il capobanda stappava lo champagne e lo beveva direttamente dalla bottiglia, per poi passarlo agli altri. Svuotato il vassoio, Ivan lo girò e vi versò sopra il contenuto di una bustina di polvere bianca, finissima.

Il Vampiro sbatté nuovamente le palpebre.

Carlo non fece in tempo a chiudere gli occhi e rimase accecato dalla luce. Non potendo vedere, si sforzò di percepire con gli altri sensi ciò che lo circondava: avvertì sulla pelle il calore intenso di un sole non invernale, l’aria piacevolmente umida di salsedine, sotto i piedi una sabbia finissima e tiepida; sentì il placido mormorio dell’acqua che risaliva il bagnasciuga, il fruscio leggero della brezza tra gli alberi che immaginò essere palmizi; qualcuno gli infilò in bocca una cannuccia: provò il sapore dolciastro di una caipirinha alla fragola. Poi riconobbe una voce familiare: «Ué moretta, portami qua una birra gelata, subito eh!»

Con prudenza, Carlo socchiuse gli occhi e vide Antonio, il suo padrone di casa, immerso nell’acqua turchese così cristallina che anche a metri di distanza si intravedevano sotto la superficie il pallido ventre rigonfio e il costume slip color vernaccia. Doveva essere lì da pochi minuti ma già il sole gli infliggeva i primi segni rossicci sul volto, tutto intorno agli occhiali a specchio, e sul cranio spelacchiato. Una graziosa cameriera mulatta in bikini sgargiante gli portò il boccale e venne ringraziata con una poderosa manata sul sedere.

Carlo fece per succhiare dalla cannuccia ma inspirò solo aria. Fredda. Era in una funivia, la cabina era occupata da un gruppetto di uomini in smoking accoppiati con giovani donne bellissime. In cima li attendevano due fuoristrada pronti a condurli a uno chalet illuminato: pareva la scena di un film di James Bond. Carlo lì seguì all’interno. Un cameriere in livrea prese il suo cappotto mentre un altro gli offriva champagne. Vide il Vampiro che chiacchierava con un uomo brizzolato dai lineamenti orientali e dall’aria importante, si avvicinò e sopra il brusio di risate argentine, calici tintinnanti e chiacchiericcio spensierato sentì un frammento di conversazione:

«… irresponsabili. Si lamentano che non c’è lavoro, e quando ce n’è scioperano.»

«Davvero! E a pagare poi sono sempre i clienti. Vero, Carlo? Carlo, ti presento il mio amico David Li. È l’amministratore delegato di Mao-zan Italia, ed è anche il padrone di casa stasera.»

Carlo tese la mano, imbarazzato. Non appena sfiorò quella del manager, l’intera scena scomparve: aprì gli occhi nel suo letto, si guardò intorno, non vide nessuno. Troppo agitato per riaddormentarsi, si alzò per preparare una tisana.

Gli Zombie del Natale Futuro

Accese a metà l’alogena lasciando il soggiorno in penombra, in modo che la luce non lo svegliasse del tutto. Mentre si chinava per prendere un pentolino dalla credenza intravide una figura muoversi nell’angolo dietro il frigorifero. Spaventato, si ritrasse verso il centro della stanza. La creatura avanzava con lentezza esasperante, le braccia protese in avanti. Non era sola: altri tre mostri convergevano verso di lui con lo stesso passo e la stessa postura.

Ecco che emergevano dalla semioscurità. Uno indossava divisa e berretto di Mao-zansopra una putrida carcassa deambulante. Un altro, che apriva e chiudeva meccanicamente le mandibole prive di pelle, aveva le sembianze dell’immigrato che quel pomeriggio chiedeva l’elemosina fuori dal supermercato. Carlo inorridì scoprendo nei lineamenti deformati e sfigurati della terza creatura il volto di Chiara, che lo squadrava come se volesse divorarlo. Infine incrociò lo sguardo del quarto e riconobbe… se stesso.

I quattro gorgogliavano quello che pareva un motivo natalizio, un agghiacciante Jingle Bells in tono minore.

«Mio caro, ti presento gli Zombie del Natale Futuro», scandì una voce ormai conosciuta: soltanto allora Carlo si accorse del Vampiro comodamente adagiato sul divano. Cingeva le spalle dello Spirito del Natale Passato, seduto accanto a lui: sotto gli occhi del ragazzo, con un movimento fulmineo si girò e conficcò i canini nel collo dello spettro. Quando levò nuovamente gli occhi sul ragazzo, una chiazza di sangue ricopriva il ghigno mostruoso.

Era troppo. Carlo fu sopraffatto dall’angoscia e perse i sensi.

Epilogo

La mattina di Natale Carlo si svegliò di umore completamente diverso da quello con cui si era addormentato la sera prima.  Lo attribuì in parte alla neve che era caduta copiosa nelle ultime ore, e in parte agli strani sogni della notte, di cui non ricordava la trama ma aveva trattenuto le sensazioni: gioia, speranza, desiderio di rivalsa, a dire il vero anche un po’ di senso di colpa e di timore. Ma soprattutto percepiva una determinazione che non ricordava di avere mai avuto.

Mentre faceva colazione scrisse un messaggio a Chiara, aggiungendo delle scuse per come si era comportato con lei giusto un anno prima (ecco da dove venivano i sensi di colpa: doveva aver sognato anche Chiara): non credeva che lei gli avrebbe risposto, ma gli pareva comunque di essersi tolto un peso. Si sforzò di comporre due calorosi biglietti d’auguri da aggiungere ai pacchetti per i genitori e ovviare almeno in parte alla pochezza dei regali. Sulla strada poi comprò da un bangladese un piccolo mazzo di rose per sua madre.

Come ogni anno, il padre aveva invitato a pranzo un vecchio amico, ex collega in fabbrica che dopo la chiusura dello stabilimento era diventato funzionario sindacale. A tavola gli chiese consiglio su come organizzarsi in azienda: nominare qualcuno che potesse trattare con Ivan, tanto per cominciare, per ottenere il pagamento degli stipendi senza ulteriori ritardi.

Paolo, il sindacalista, raccontò tra le altre cose dello sciopero dei dipendenti di Mao-Zanper protesta contro i ritmi di lavoro disumani che erano costretti a sopportare, soprattutto nel periodo delle feste: il loro presidio davanti ai cancelli del magazzino appena fuori città andava avanti da due settimane e cominciava a fare capolino nei titoli dei giornali.

«Ne so qualcosa», ridacchiò Carlo, e mentre lo diceva gli tornarono in mente altri frammenti dei sogni della notte prima. Stavano sorseggiando il caffè quando gli venne un’ispirazione: «E se andassimo al presidio?» I genitori lo guardarono con stupore mentre Paolo applaudiva entusiasta. Detto fatto: caricarono in macchina due confezioni di pandoro, dono dei vicini di casa, e una bottiglia di spumante; c’era ancora luce quando arrivarono a destinazione.

Sotto il tendone allestito alla bell’e meglio davanti al grande cancello, una cinquantina di persone, compresi alcuni bambini, giocavano a tombola. Molti degli operai conoscevano Paolo, tutti sembravano felici della visita inaspettata. L’ora successiva trascorse per Carlo tra presentazioni, racconti di lotte passate e auguri per le lotte presenti e future. Quando uscì per fumare una sigaretta, era calata la sera e stava di nuovo nevicando. Sui fili del telefono proprio davanti al tendone si erano appollaiate decine di uccelli. No, erano pipistrelli. Un bambino colpì il più grosso con una palla di neve e li fece volare via.

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