Numeri di fine stagione

È di qualche giorno fa la pubblicazione dell’ultimo rapporto ISTAT sull’occupazione, che registra un timidissimo aumento del numero complessivo di occupati (+0,5%, pari a 115mila unità, su base annua).

Fermi là con quella bottiglia di spumante!

Ci sono molti modi per leggere le statistiche, specialmente quelle che riguardano fenomeni complessi come l’occupazione. Confindustria, ad esempio, per bocca del suo “capoeconomista” Andrea Montanino, sostiene che, dal momento che il PIL non è cresciuto neppure di uno zerovirgola nello stesso periodo, “forse stiamo creando occupazione a basso valore aggiunto. La sensazione è che sia occupazione in servizi a basso valore,stiamo trasformando la nostra economia da manifatturiera, che crea valore aggiunto, a servizi a basso valore. Stiamo tornando indietro con servizi a basso valore, orari più flessibili, più occupati ma meno ore di lavoro.” Forse, eh?

Scrutando meglio i dati forniti dall’ISTAT relativi ad attivazioni, cessazioni e trasformazioni di rapporti di lavoro, allegati all’ultima nota trimestrale (relativa al primo trimestre 2019), si possono estrapolare altre informazioni interessanti, ma non proprio entusiasmanti. Mi colpisce in particolare questo dato, relativo ai rapporti di lavoro a tempo indeterminato: è vero che aumentano le assunzioni, sia su base trimestrale (560mila, il numero assoluto più alto da gennaio 2016) che su base annuale (superati i 2 milioni per la prima volta dalla fine del 2016). Tuttavia aumentano anche le cessazioni, ossia soprattutto i licenziamenti: 576mila nell’ultimo trimestre (il numero assoluto più alto dal terzo trimestre del 2015), 2.264mila su base annuale (record dalla fine del 2015). Se il saldo complessivo è positivo nell’ultimo trimestre conteggiato, è soltanto grazie ai nuovi contratti a tempo determinato: oltre 2 milioni di nuovi contratti (record assoluto), a fronte di 1.867mila contratti a termine cessati (secondo picco più alto di sempre, dopo quello del terzo trimestre del 2018). Nello stesso periodo, è giusto segnalare che oltre 200mila contratti a termine sono stati trasformati a tempo indeterminato: per questa ragione il numero complessivo di dipendenti a tempo indeterminato nel primo trimestre del 2019 è aumentato rispetto all’ultimo trimestre del 2018, mentre quello dei dipendenti con contratti a termine è diminuito.

L’ISTAT conferma, nella sua nota trimestrale sul mercato del lavoro, che va riducendosi il “tasso di permanenza nell’occupazione” (-1,8% su base trimestrale), ossia la “probabilità di permanenza nella stessa condizione tra l’inizio e la fine di un determinato periodo“: in pratica, chi oggi ha un lavoro ha il 19% di probabilità di perderlo di qui a tre mesi.

Detta in modo più semplice: ormai sono precari anche gli assunti a tempo indeterminato. Esattamente il risultato che si era prefisso il governo Renzi quando ha varato il Jobs Act (e prima ancora il governo Monti con la riforma Fornero), cancellando le tutele contro i licenziamenti illegittimi.

Per parte mia, i numeri del mio piccolo e parziale osservatorio personale sul mercato del lavoro, costituito dalle pratiche che sono transitate sulla mia scrivania nell’ultimo anno, confermano che le cause che riguardano licenziamenti – che da sempre sono la maggioranza relativa – sono ulteriormente aumentate in percentuale rispetto agli ultimi anni, arrivando a sfiorare il 40%. Per la prima volta, quest’anno, il numero di licenziamenti “sotto Jobs Act”, ossia di lavoratori assunti dopo il 4 marzo 2015, ha raggiunto quello dei licenziamenti “con l’articolo 18”.

Anche questo dato, nel suo piccolo, conferma le conclusioni dell’ISTAT, secondo cui l’aumento delle cessazioni dei rapporti di lavoro è in buona parte legato alla fine degli sgravi a suo tempo garantiti dal governo Renzi per le nuove assunzioni.

E il Decreto Dignità, che ha compiuto da poco un anno? Secondo l’Istituto di statistica, ha gran parte del merito per l’aumento delle trasformazioni da tempo determinato a tempo indeterminato. Come scrivevo un anno fa, però, “il vero problema è che, per quei pochi che potranno ottenere l’assunzione a tempo indeterminato, il destino continua a riservare un contratto a tutele crescenti, ossia un’altra forma di precarietà.” Sono stato facile profeta, così come nel prevedere un aumento del turn over nei contratti a tempo determinato.

Forse la bottiglia di spumante possiamo rimetterla in frigo. Teniamola per il giorno in cui saremo riusciti a riconquistare i diritti che ci hanno tolto negli ultimi vent’anni, a partire dall’articolo 18!

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