La vendetta del postino cottimista

Domani chiudo tutto e me ne vado al mare, torno fra tre settimane. Non ho neppure voglia di fare statistiche sul tipo di contenzioso che mi ha tenuto occupato negli ultimi dodici mesi, ne riparliamo magari a fine anno. Vi lascio però con il commento a una delle sentenze più soddisfacenti che ho ottenuto quest’anno, in una vicenda che possiamo intitolare

LA VENDETTA DEL POSTINO COTTIMISTA

Per oltre due anni, G. ogni giorno si svegliava, inforcava la bicicletta e girava per alcuni paesi del lodigiano a consegnare la posta. Bicicletta e divisa avevano i colori di una grande multinazionale delle consegne, ma G. era assunto da un’azienda molto più piccola che a sua volta lavorava per la multinazionale: nulla di strano. Girava da lunedì a venerdì tutta la mattina e spesso anche nel primo pomeriggio, poi verso le cinque andava in sede a ritirare la posta da consegnare il giorno dopo. La posta arrivava in pacchi: per riuscire a consegnarla in tempo il giorno dopo, una volta tornato a casa G. doveva smistarla e ordinarla via per via, civico per civico – qualche volta, quando era più del solito, si faceva aiutare anche dai figli. Tra consegne, ritiro e smistamento, G. non lavorava mai meno di 40 ore alla settimana. Il suo contratto però era per 20 ore alla settimana, e lo stipendio di conseguenza. Per questa ragione, una volta terminato il rapporto di lavoro, ha deciso di fare causa per avere tutte le differenze che riteneva gli spettassero.

La causa è stata promossa sia verso il datore di lavoro effettivo che contro la multinazionale, che secondo noi (cioè i difensori di G.) era responsabile in solido , in quanto committente. Il datore di lavoro si è difeso dicendo che tutti i dipendenti assunti part time lavoravano effettivamente solo per le ore del contratto e che i pochi straordinari venivano pagati. Quanto al contratto con la multinazionale, si sarebbe trattato di una partnership in cui “il profitto del partner dipende dal proprio merito imprenditoriale“. Che fosse un contratto di partnership e non un semplice appalto lo ha sostenuto anche la multinazionale, sperando così di sottrarsi alla responsabilità solidale: la norma sulla responsabilità solidale (il meccanismo l’ho descritto qui) infatti parla solo di appalto e non menziona altri tipi di contratto per quanto simili.

Per dirimere la questione e scoprire se davvero G. lavorava 8 e non 4 ore al giorno il giudice ha voluto sentire dei testimoni. Tutti i colleghi, oltre a confermare che il lavoro era proprio come l’aveva descritto G. e che si lavorava per 40 e più ore alla settimana, hanno spiegato che in realtà la “ditta” li pagava in base alle consegne: 7 centesimi per ogni plico. Le buste paga erano “aggiustate” di conseguenza, facendo figurare “premi di produzione” (esenti da contributi e senza incidenza sul TFR, ferie e tredicesima) e “trasferte” per quelle che erano normalissime ore di lavoro. In pratica, un cottimo camuffato. Così, anche se i lavoratori lavoravano a tempo pieno, il datore di lavoro li pagava molto meno. Quanto meno? Be’, la sentenza ha stabilito che G. avrebbe dovuto ricevere circa 14mila Euro in più in due anni e mezzo di lavoro. Ecco il merito imprenditoriale da cui dipendeva il profitto del partner!

E la multinazionale? È andata male anche a lei. Il giudice infatti ha valutato che, partnership o non partnership, la sostanza del contratto era pur sempre riconducibile a quella di un appalto. Tanto più che nel frattempo la Corte Costituzionale, a dicembre 2017, aveva stabilito che la norma sulla solidarietà va applicata non solo in caso di appalto, ma in generale in tutti i casi in cui c’è una scissione fra datore di lavoro ed effettivo beneficiario della prestazione lavorativa. Questa in effetti è la parte più interessante della sentenza, sotto il profilo più strettamente giuridico.

La vendetta del postino cottimista, dunque, è stata completa: spero che con questi soldi possa godersi meglio le vacanze.

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