Via dalle case di bambola

Tu e il babbo vi siete resi gravemente colpevoli nei miei confronti. Vostra è la colpa se non sono riuscita a niente.

[…]

Devo cercare di educare me stessa e tu non sei uomo da aiutarmi. Devo farlo da me. Perciò ti abbandono.

[…]

Credo d’essere prima di tutto una creatura umana al pari di te… o almeno voglio tentare di diventarlo. So bene, Torvald, che il mondo darà ragione a te e che qualcosa di simile si legge nei libri. Ma ciò che dice il mondo e ciò che si legge nei libri non può più essere norma per me. Io stessa devo riflettere per vederci chiaro nelle cose.

Sono alcune delle parole di Nora al marito nel finale di Casa di bambola, che molto opportunamente il Teatro Franco Parenti di Milano mette in scena nelle serate intorno alla Giornata internazionale della donna. Fa davvero impressione che questo testo, scritto da Ibsen quasi centocinquant’anni fa, sia ancora tanto attuale: è un’orribile dimostrazione che la strada per l’emancipazione della donna, in così tanto tempo, non sia stata percorsa che per pochi passi, continuamente messi in discussione.

Il maschilismo è uno dei veri pilastri della società, permea le istituzioni e le convenzioni sociali non solo nel modo sfacciato e ripugnante della violenza e delle disparità economiche, ma anche in modi più subdoli, capillari, che si manifestano spesso inconsapevolmente nel modo di pensare di quasi tutti gli uomini e di molte donne.

Il percorso verso la liberazione delle donne dal dominio di una società profondamente maschilista passa inevitabilmente da questa presa di coscienza collettiva. Questo 8 marzo, che da molti anni a questa parte è il più ricco di iniziative politiche e culturali, potrà essere un buon punto di partenza se la riflessione su questo tema uscirà dalla ricorrenza, e soprattutto se sarà accompagnata da azioni e rivendicazioni concrete.

 

P.S. Dello spettacolo diretto da Andrée Ruth Shammah ho apprezzato la scelta di far interpretare tutti i ruoli maschili a un solo attore, che avrebbe potuto simboleggiare come l’oppressione della donna nella famiglia (da parte del marito Torvald) sul “lavoro” (da parte dello strozzino Krogstad) e nella società (da parte del dottor Rank) siano facce della stessa medaglia. Ma soprattutto la caratterizzazione del dottor Rank, poco più che macchietta, mi è parsa poco coerente con questa scelta: ad esempio, avrei reso la scena del “bacio” a Nora come il vero e proprio stupro che in buona sostanza è, e non come il triste tentativo di un patetico cavalier servente prossimo a morire. Così la scelta dell’unico attore maschile ha soltanto la funzione di esaltarne la bravura – e non è anche questo una forma sottile di maschilismo?

Filippo Timi, che poi bravo lo è per davvero, per la verità mi ha proprio convinto soprattutto nell’interpretazione di Torvald, mescolando affetto e paternalismo, tenerezza e desiderio di possesso in modo verosimile, rendendo davvero attuale e immediato il testo di Ibsen. Mi ha lasciato perplesso invece l’interpretazione di Nora, resa (certamente per scelta infelice di regia) in modo costantemente sopra le righe, anche dopo la presa di coscienza della sua condizione di oppressa: ancora una volta, un po’ troppo vicino allo stereotipo della donna “tutta passione e poca razionalità”.

Va detto comunque che io di teatro non capisco praticamente niente.

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