Brexit

In vista di un’imminente discussione, raccolgo qui e cerco di riordinare in un discorso di senso compiuto le mie riflessioni di questi giorni sul referendum britannico. Andiamo per punti:

1. L’Unione Europea

L’UE è uno schifo. Come ha ampiamente dimostrato, appena un anno fa, la vicenda della Grecia, è un’istituzione antidemocratica e repressiva che agisce negli interessi sostanziali del grande capitale finanziario dei Paesi europei. Questi interessi, che in larga misura coincidono, consistono oggi nello scaricare sulle fasce più deboli della società i costi della recessione, imponendo ovunque politiche fatte di tagli alla spesa sociale, ai salari, alle pensioni, da ottenersi possibilmente attraverso la cancellazione delle tutele che offrivano una qualche protezione contro gli abusi: ad esempio i contratti collettivi nazionali inderogabili e le sanzioni contro i licenziamenti illegittimi. Il Jobs Act (e prima ancora la riforma Fornero ispirata dalla famigerata lettera della BCE al governo italiano), le misure imposte alla Grecia in cambio dei finanziamenti necessari a ripagare il debito verso le banche europee, da ultimo la Loi Travail in Francia, sono tutte figlie legittime e riconosciute dell’Unione Europea.

Tutto l’arsenale di valori ideali portati in palmo di mano dagli “europeisti”, sulla fine delle guerre, l’integrazione tra i popoli, etc. etc., è aria fritta: basta osservare la gestione dell’immigrazione negli ultimi mesi. E quanto alle guerre, nessuno può seriamente pensare che la terza guerra mondiale sia stata evitata grazie all’esistenza della CEE prima, e dell’UE poi. In compenso, l’Europa è stata teatro di conflitti sanguinosi, come quello nell’ex Jugoslavia, a cui i paesi dell’Unione non solo hanno assistito senza muovere un dito (e anzi intervenendo militarmente), ma sulle cui macerie hanno fatto affari d’oro.

È possibile “riformare” l’Unione Europea su basi di solidarietà e giustizia sociale? No. Per il semplice fatto che lo scopo di questa istituzione non è mai stato sviluppare solidarietà e giustizia sociale, bensì rendere più stabile l’economia di mercato all’interno dei paesi membri. In un’epoca di crisi, il sistema può essere mantenuto relativamente saldo nei paesi più ricchi soltanto sacrificando quelli deboli: per questo, non per cattiveria, vengono imposti tagli senza fine in Francia, in Italia, in Spagna, in Grecia. Solo rifiutando totalmente i meccanismi del capitalismo sarà possibile costruire una nuova unione fra gli stati europei (e non solo), basata sulla solidarietà, la democrazia, la giustizia sociale: è una prospettiva molto desiderabile, ma impossibile da realizzare senza prima distruggere i governi esistenti e i loro strumenti di oppressione sovranazionale.

Non c’è nulla di progressista nel voler mantenere questa Unione Europea. Infatti un anno fa, all’epoca del referendum in Grecia, gran parte di quanti oggi, a sinistra, piangono l’uscita del Regno Unito dall’UE erano giustamente a favore del no, che era un no al memorandum imposto dalla Troika, ma che all’epoca, prima del voltafaccia di Alexis Tsipras, sembrava preludere proprio a una “Grexit”.

2. Leave o Remain

L’uscita della Grecia, grazie a una campagna e una mobilitazione senza precedenti contro l’austerità, sarebbe stata un’uscita da sinistra. Preparare il terreno per una Brexit da sinistra sarebbe stato anche il compito del Labour Party guidato da Jeremy Corbyn: conquistando alla prospettiva di una rottura radicale del sistema la base e i sindacati che l’hanno appoggiato finora, avrebbe potuto mobilitare forze enormi. Invece Corbyn si è accodato all’ala conservatrice del suo partito, a sua volta accodato all’ala “moderata” del partito conservatore, difendendo la scelta del remain in un’ottica di riforma dell’Unione Europea. La stessa ottica assunta da Tsipras un anno fa, con i risultati che abbiamo visto.

La campagna per il leave perciò è stata egemonizzata da un partito di estrema destra come Ukip e dall’ala “radicale” del partito conservatore, che l’hanno condotta essenzialmente sulla base di argomenti razzisti e del nazionalismo più becero. Nemmeno con la lente d’ingrandimento si riescono a cogliere elementi progressisti nella campagna per l’uscita dall’UE, anche se questo in effetti non significa che tutti quelli che hanno votato leave lo abbiano fatto per quelle ragioni (a quanto pare, tra quanti hanno votato, oltre un terzo di chi alle scorse elezioni aveva votato il Partito Laburista ha scelto leave).

L’ampio sostegno delle persone di sinistra, nel Regno Unito e nel resto d’Europa, a favore del remain è dovuto non solo alla campagna martellante dei media mainstream, fraudolenti portavoce degli interessi del grande capitale per il mantenimento dell’Unione, ma anche al sacrosanto disgusto per gli unici argomenti del leave rimasti sul terreno un po’ come se in Italia a fare campagna contro l’UE fossero solo Salvini e la Meloni (che poi è quello che verosimilmente accadrebbe se ci fosse un referendum qui da noi).

Ma il fatto verissimo che la campagna per il leave sia stata disgustosa non rende solo per questo migliore l’opzione del remain, che in concreto significa soltanto continuare a sottostare alle politiche di austerità.

In questo contesto, probabilmente, quel che avrei fatto io sarebbe stato astenermi, in un confronto che di fatto era tra due ali della destra conservatrice, una più becera dell’altra: la soluzione delle disuguaglianze sociali non risiede né in un’Unione Europea capitalista, né in un Regno Unito capitalista.

Sembra che proprio la scelta dell’astensione sia stata maggioritaria tra i giovani britannici: nella fascia di età tra i 18 e i 24 anni ha votato solo il 36% degli elettori – dato particolarmente significativo se si pensa che in generale l’affluenza al voto, pari al 72%, esattamente il doppio, è stata la più alta dalle elezioni del 1992. Con buona pace della retorica sparsa a piene mani in questi giorni sui “vecchi” che avrebbero rubato il futuro ai giovani.

Come le statistiche sul voto mostrano bene, in realtà, a far pendere il risultato dalla parte del leave non sono stati i “vecchi”, ma la classe lavoratrice che vive nelle periferie delle grandi città e ha un reddito annuo inferiore alle 25mila sterline. Ossia quelli su cui sono stati scaricati in questi anni i costi della crisi economica.

Rinunziare a spiegare a queste persone che la colpa è in primo luogo del sistema capitalista, e in seconda battuta dell’Unione Europea che ne è baluardo, lasciandoli così in balia della propaganda di Nigel Farage e compari, è un errore grave che Corbyn, adesso, rischia di pagare caro.

3. #KeepCorbyn

Corbyn è stato sotto attacco fin dall’inizio della campagna per la leadership laburista, non appena è stato chiaro che aveva concrete possibilità di vincere. Il gruppo parlamentare laburista l’ha sfiduciato il giorno dopo l’esito del referendum chiedendo le sue dimissioni e invocando regole bizantine per impedirgli di ricandidarsi a capo del partito. Questo, nonostante goda ancora del consenso della larga maggioranza degli iscritti (e della maggioranza degli elettori) e del sostegno dei principali sindacati.

Nonostante a cacciarlo in trappola sia stata la sua insufficiente risolutezza nel combattere l’ala blairiana ultra-moderata che controlla il gruppo parlamentare, e il conseguente errore nel seguire la destra del partito nella campagna per il remain, Jeremy Corbyn continua a rappresentare la migliore chance perché il Partito Laburista possa tornare a essere uno strumento utile per la classe lavoratrice britannica, uno strumento per la rottura del sistema capitalista nel Regno Unito e a cascata nel resto d’Europa.

Ecco perché mi unisco ancora una volta al mio fumettista preferito:

e alla campagna #KeepCorbyn.

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